Il lungo cammino dell’emancipazione femminile
Undici storie di donne arrivano ai lettori, a inaugurare con buon anticipo le celebrazioni del centenario della Grande guerra. Il volume, “Donne nella grande guerra” (Il Mulino, 242 pagine, 22 euro), promosso da “Controparola” e opera di undici scrittrici, si apre con una introduzione di Dacia Maraini e precede un’inevitabile ondata di scritti, più o meno originali, che occuperanno i banchi delle librerie nei prossimi mesi.
Questo libro vanta però un merito indiscutibile: colloca le italiane dell’epoca nel quadro storico, assegnando loro un posto dignitoso e importante, che è quello che hanno in effetti occupato, ma che non sempre viene adeguatamente riconosciuto. «Le protagoniste di queste vicende» osserva Dacia Maraini «sono per lo più personaggi umili: crocerossine, maestre, operaie, sarte. Solo alcune sono intellettuali e c’è perfino una regina che appare nel quadro, ma il loro destino, per prassi quotidiana e per passione condivisa, si è fatto sempre più simile a quello delle casalinghe e delle madri di famiglia che curano malati, trasportano biancheria sporca, manovrano macchine tessili e insegnano in scuole isolate e malmesse. Sono storie esemplari nella loro umiltà e chiarezza. Storie che raccontano il coraggio, la tenacia, la forza di corpi femminili in azione, prima, durante e dopo una guerra devastante che ha impoverito e umiliato il nostro paese. Pronte a rischiare la vita per difendere la libertà di parola, di pensiero e di movimento».
Nel processo che, cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, puntava a includere a pieno titolo le masse proletarie e contadine, e anche le donne, nella vita civile, la guerra del 1914-18 ha offerto il suo pur sanguinoso contributo. «Cittadine di complemento», le italiane non si erano mai sottratte al compito di costruire la nazione e di consolidarne l’esistenza: nell’assistenza ai feriti e ai moribondi si erano cimentate Laura Solera Mantegazza nel 1848 e Cristina di Belgiojoso nel 1849; nella teorizzazione del femminismo Anna Maria Mozzoni e nel feminismo pratico Ersilia Bronzini Majno; nella politica Anna Kuliscioff; nella pedagogia Maria Montessori, e l’elenco potrebbe allungarsi con le signore dei salotti, le scrittrici e le giornaliste, tutte consapevoli di un ruolo storicoquello di cementare la giovane società italiana, che doveva essere moderna, creativa, prospera e pacifica.
Ma le italiane erano chiuse nel cerchio di ferro dei limiti giuridici e culturali: l’angelo del focolare e ladonna gregaria dell’uomo riempivano le menti, e a molti, troppi suscitava orrore la femmina colta o la compagna libera. Così, è la guerra ad allargare quei limiti. Come racconta Elena Doni, le crocerossine vengono accettate più che volute; ma sono figlie della buona società e, in fondo, non esulano da quel terreno della cura e dell’assistenza che è «prerogativa» femminile. D’altra parte le crocerossine godo di un’altissima protezione: la regina Elena di Savoia, scrive Cristiana di San Marzano, apre le sale del Quirinale ai feriti e si fa infermiera lei stessa, in compagnia della duchessa Elena d’Aosta, ispettrice generale della Croce Rossa, nata e creasciuta in Inghilterra, e quindi più aperta alle suggestioni emancipazioniste. Così, narra Claudia Galimberti, Luisa Zani, la spia ventenne che rischia la vita per procurare informazioni sui movimenti delle truppe a Innsbruck, non viene presa troppo sul serio nelle alte sfere militari. Così, secondo quel che scrive Maria Serena Palier, vengono accolte nelle retrovie le prostitute, ausiliarie del sesso, e carne da macello, perché anche a questo servono le donne, nella crudele morale dell’epoca. La Zeni si salva in maniera avventurosa, ma 44 crocerossine muoiono durante il conflitto e una di loro, Margherita Kaiser Parodi Orlando, è l’unica donna sepolta al sacrario di Redipuglia.
Una mentalità arcaica e discriminatoria non risconosce alle donne che si battono per la causa della vittoria la qualifica effettiva di combattenti. Non sale e scende forse dalla prima linea la portatrice carnica Maria Plozner Mentil, con armi, munizioni, cibo, coperte e biancheria? Tanto che viene colpita da un proiettile e muore, non diversamente da qualsiasi soldato di trincea.
Altre donne nella Grande guerra hanno dato contributi differenti, e sono soprattutto le intellettuali. Ognuna di loro ha inventato la propria parte, secondo l’origine, la sensibilità e le capacità: prima che cominciano gli spari, Angelica Balabanoff si batte per la pace (la sua storia è opera di Paola Cioni); lo stesso fa la sarta Rosa Genoni, che ha abbandonato il mondo dorato degli atélier e delle nobildonne per dedicarsi al soccorso ai prigionieri (come si legge nelle pagine di Marta Boneschi), e Stefani Türr indossa gli inconsueti panni di corrispondente di guerra (con la passione e l’entusiasmo sottolieati da Federica Tagliaventi). Come la Türr, è entusiasta del conflitto armato anche Margherita Sarfatti, versatile giornalista, critica d’arte e ispiratrice politica di Benito Mussolini (raccontata da Lia Levi). In linea con il futurismo, che abbraccia con passione, Eva Kuhn sposa con passione la causa bellica, da donna libera di pensare, se non assennata (nell’attenta biografia di Mirella Serri).
«Non si può pensare la guerra senza le donne» afferma Claudia Galimberti, e nell’Europa ben più pacifica dei nostri tempi dobbiamo essere certi che «non si può pensare il progresso civile senza le donne». Questa, in fondo, va considerata la lezione più preziosa del buon libro Donne nella grande guerra.