Crescita economica e riforma del lavoro

di Luca Nogler

La riforma del mercato del lavoro deve essere valutata in funzione dell’ambizioso obiettivo che dichiara di perseguire e cioè di contribuire alla crescita economica. Accostare la crescita economica al diritto del lavoro è per molti versi, almeno in Italia, una novità. Basti considerare che sopravvive ancora oggi presso alcuni una forma mentis, tutta ideologica, per cui la libertà d’iniziativa economica sarebbe uno degli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana

In realtà il diritto del lavoro non svolge solo la funzione di proteggere il lavoratore. Storicamente si è affacciata prima un’altra funzione, quella di sostegno alla libertà d’impresa, successivamente riconosciuta a livello costituzionale (art. 41 Cost.).

Purtroppo la prospettiva della crescita non fu tenuta in considerazione quando – alla metà degli anni Ottanta dello scorso secolo – il nostro paese si trasformò in una società dei servizi. In tutto il decennio 1985-1995, l’Italia, non solo non assecondò l’esigenza della flessibilità in entrata, ma irrigidì enormemente la flessibilità in uscita: alludo alla riforma dell’art. 18 approvata nel 1990 che introduce l’indennità sostitutiva fissata in cifra fissa in quindici mensilità di retribuzione. Non è un caso che Gino Giugni, socialista e presidente della commissione lavoro del Senato, suggerì l’astensione dei socialisti e criticò «l’inutile aggravamento di vincoli e costi nel regime di reintegrazione».

A quel punto – nelle unità produttive con più di quindici dipendenti – l’Italia schizzò in testa in tutte le classifiche dell’OCSE sul costo del licenziamento illegittimo: le 15 mensilità sostitutive della reintegrazione si sommano, come noto, a tante mensilità quanti sono i mesi che decorrono dal licenziamento alla reintegrazione. Insomma, il lavoratore può sedersi al tavolo della conciliazione chiedendo dalle 30 mensilità in su. Ciò in un contesto di iper-garantismo giudiziale, in cui il licenziamento per inadempimento è onerato di complesse procedure preventive, come anche il licenziamento collettivo. Ma questa impostazione è smentita dal diritto comparato se si considerano i diversi esempi di Germania e Francia.

Con la seconda metà degli anni Novanta arrivò la flessibilità in entrata, ma all’approccio ideologico di buona parte del mondo sindacale italiano, arroccato in difesa della rigidità del contratto di lavoro a tempo indeterminato, si sommò l’assenza di una diffusa e sentita cultura imprenditoriale. In anni di profitti, la classe imprenditoriale italiana mitigò la tendenza ad investire nel contesto produttivo. Fu sintomatico che, quando nell’agosto del 1998, Ciampi lanciò l’idea di un nuovo patto sociale incentrato sullo scambio tra investimenti e maggior flessibilità, incontrò le resistenze di Confindustria e sindacati. Malgrado queste prese di posizione contrarie, la proposta di Ciampi fu rilanciata nel dicembre del 1999 dal Ministro del tesoro Amato, ma anche questa volta il suggerimento non ebbe seguito. Ci riproverà, infine, nel maggio del 2006, Padoa-Schioppa, in un’epoca in cui già si era affermata la precarietà, ma anche la sua proposta di uno scambio basato sul contenimento delle retribuzioni mirato a far lievitare i margini delle imprese che per contro si sarebbero dovute impegnare a reinvestire i maggiori profitti si è realizzato solo per quanto attiene al primo profilo.

In una fase, nella quale non era più possibile perseguire la competitività con la svalutazione della moneta, al posto di rafforzare gli investimenti si perseguì il riduttivo obiettivo – perdente nel lungo periodo, considerato l’affermarsi della globalizzazione dei mercati – della riduzione dei costi che spesso erano quelli previdenziali (co.co.co. e microimprese) oppure legati alla formazione dei dipendenti. I profitti andarono in rendite materiali (edilizia) o finanziarie, il più delle volte all’estero.

Dal 2000, l’investimento nei capitali innovativi è progressivamente diminuito (v. i dati di G. Ciccarone, E. Saltari, La Germania è lontana, NelMerito.com, 29 dicembre 2010), oltre ad essere diminuita costantemente anche la propensione delle imprese a formare i lavoratori.

In tutto questo periodo nessuno si preoccupò della flessibilità interna al rapporto: nè in termini di mansioni, la cui disciplina irrigidisce a tal punto lo jus variandi del datore di lavoro da far confondere spesso le esigenze di efficienza con il fenomeno del mobbing; né in termini di orari di lavoro, che nelle realtà aziendali restano variabili indipendenti dal mercato; né, infine, in termini retributivi, dove nei contratti collettivi domina ancora il criterio dell’anzianità. La rigidità del contratto di lavoro a tempo indeterminato sommata alla mancanza di investimenti ha determinato, infine, il crollo della produttività del lavoro e ha, quindi, aumentato a dismisura il costo per unità di prodotto. Nell’ultimo decennio in Germania la produttività è cresciuta del 16%, in Francia quasi del 20%, laddove in Italia sfiora appena il 3 per cento. In molte parti d’Italia, il lavoratore dipendente guadagna poco, ma il lavoro costa ormai troppo. Ben inteso il diritto non è, come presuppongono alcuni giuslavoristi, l’unica – e neppure la principale – componente che incide sulla produttività. Tra i fattori extra-giuslavoristici vanno, per lo meno citati anche la ridotta dimensione delle imprese, la bassa dotazione di capitale per addetto, un’amministrazione pubblica che crea incertezze e ritardi, l’alto livello della tassazione e del costo del lavoro, il più alto costo dell’energia, la carenza di infrastrutture e, non ultimo, i bassi investimenti in innovazione e ricerca che frenano lo spostamento dei fattori produttivi dai settori in declino a quelli in espansione.

La scelta italiana di accrescere la flessibilità esterna, ha, inoltre, incentivato le imprese a rimanere nei settori tradizionali e le ha scoraggiate a introdurre innovazioni dati i costi della riorganizzazione imposti dalle nuove tecnologie.

In un contesto regolativo rigido quanto alla disciplina interna e alla flessibilità in uscita, il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è stato progressivamente eroso dalla flessibilità in entrata, mentre la stabilità si sposta sempre più nel tempo. Questa è la situazione in cui il nostro paese è giunto alle soglie della recente crisi finanziaria.

Tre altre evoluzioni meritano di essere rammentate.

Nelle Province si erigono negli anni Ottanta e Novanta apparati pubblici di gestione del mercato del lavoro e di erogazione della formazione dei lavoratori. Si diffonde l’illusione che i posti di lavoro nascano da soli e che basta incanalare i lavoratori verso le opportunità di lavoro nonché che la formazione interna possa essere sostituita dalla sola formazione esterna. Cassa integrazione e indennità di mobilità provvedono spesso a traghettare i lavoratori più anziani verso la pensione, nè si rinuncia ai pre-pensionamenti oppure ad incardinare i lavoratori in “esubero” nel settore pubblico.

Al problema, ormai cronico, della produttività del lavoro pubblico si risponde con la privatizzazione in massa del rapporto di lavoro, dimenticando che in queste organizzazioni il datore di lavoro non ragiona con la stessa logica di quello privato. Si è tenuto fermo, invece, in ogni caso e sempre, il principio dell’accesso al lavoro nelle p.a. tramite un concorso pubblico senza indagare se ciò corrisponda o no a quanto avviene in altri sistemi evoluti e dei tagli lineari. La prima scelta incentivò i co.co.co., la seconda una folta schiera di lavoratori a termine che premono (ancora) per la stabilizzazione.

L’unica nota positiva viene dall’artigianato dove le parti sociali fanno da sé. In questo settore non vi è il problema della rigidità del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ma l’esigenza di socializzare talune funzioni imprenditoriali e sindacali che vengono messe in comune all’interno degli enti bilaterali (investimenti, formazione, quote sindacali) che diventano i principali strumenti di gestione del mercato del lavoro e dei cicli economici e, quindi, degli ammortizzatori sociali. E’ l’esperienza più interessante, specie nel Veneto, dove la bilateralità ha contribuito a rendere effettiva la contrattazione collettiva che si è sviluppata anche a secondo livello, in Lombardia, Emilia Romagna e nel Trentino.

Ora, la proposta di riforma Fornero enuncia l’intenzione di affrontare il problema della crescita (e quindi della produttività) ma lo fa secondo un equazione estremamente semplificante: da un lato, rendere più difficile la flessibilità in entrata e più facile quella in uscita dovrebbe favorire il contratto a tempo indeterminato e ciò naturalmente (senza intervenire sul profilo regolativo) aumentare la produttività del lavoro (questo è un primo errore: manca la flessibilità interna; la lezione di Marchionne non è stata assimilata). Dall’altro lato, il referente della riforma è il mondo di Confindustria e non si considera neppure l’impatto che la riforma può avere, ad esempio, nell’ambito dell’artigianato (secondo errore). Nulla in termini di flessibilità interna. Infine, non è ancora chiaro come si interverrà sulla regolazione del lavoro pubblico, malgrado siano le organizzazioni con la minor produttività del lavoro e che generano una buona fetta della diffusa precarietà. Spesso si è portati a ritenere che il problema risieda nel numero troppo alto di lavoratori pubblici, ma se si confronta la percentuale del prodotto interno lordo che è coperta dal totale della spesa pubblica al netto di interessi e pensioni emerge che il nostro paese è solo al 22° posto tra i paesi dell’Euro. In realtà, spendiamo poco e male.

La proposta di ri-regolazione della flessibilità in uscita va nella direzione giusta, ma presenta alcune problematicità.

Il tradizionale garantismo in tema licenziamento per inadempimento e del licenziamento collettivo è stato condivisibilmente mitigato dalla previsione che in caso di violazione della procedura scatta il solo risarcimento del danno, anche se restano aperte alcune questioni (es. immediatezza).

E’ positivo che sia stato previsto che la sanzione in caso di ingiustificatezza sia minore rispetto a quella che scatta in caso di frode o motivo illecito, aprendo così la strada all’alleggerimento della nozione di licenziamento per ragioni organizzative così come a re-impostare la questione dell’onere della prova dell’illiceità del licenziamento.

La reintegrazione diventa eventuale in caso di licenziamento ingiustificato ma questo solo per il licenziamento economico e qui in base o a un criterio assurdo (la manifesta insussistenza o meno del g.m.o.) giacché un fatto sussiste o non sussiste, oppure ad assoluta discrezionalità del giudice (quando il g.m.o. è manifestamente insussistente).

L’importo dell’indennità nel caso in cui non venga concessa la reintegrazione (da 12 a 24) resta elevata.

Sopravvive la facoltà del lavoratore di richiedere l’indennità sostitutiva della reintegrazione cumulandola con il risarcimento del danno per il periodo intermedio. E’ vero che quest’ultimo può essere al più di dodici mensilità ma sommate alle 15 fanno 27, quando si sarebbe dovuto per lo meno introdurre il parametro dell’anzianità di servizio.

Nessuno tetto è previsto, invece, sempre per quanto attiene al periodo intermedio, in relazione ai contributi previdenziali.

Resta la lacuna legislativa riguardo al principio dell’extrema ratio, sia per quanto attiene al ripescaggio sia in relazione al profilo formativo.

Non vengono, infine, contemplati meccanismi compulsivi in caso di inadempimento dell’ordine di reintegrazione, più che necessari considerata l’inapplicabilità agli obblighi del datore di lavoro dell’art. 614bis c.p.c.

Concludo citando un esempio dal quale emerge come si può favorire la produttività del lavoro.

Dal 1960 al 1972, 34 grandi aziende industriali per lo più tedesche si sono insediate in Alto Adige, creando in 12 anni circa 2800 nuovi posti di lavoro. Alla fine degli anni Cinquanta nella Repubblica federale tedesca si avvertì una notevole carenza di forza lavoro mentre in Alto Adige i tassi salariali erano, addirittura, del 30% inferiori a quelli tedeschi.

Perché queste imprese hanno avuto successo in zone che hanno costi della vita tra i più alti d’Italia e che sono situate in mezzo alle Alpi?

Per la contemporanea presenza di tre fattori che quando convivono favoriscono l’innovazione e, quindi, la crescita: perché le imprese investono, la Provincia autonoma sostiene i loro sforzi principalmente attraverso le scuole professionali dove si formano gli apprendisti e perché i lavoratori partecipano all’organizzazione del processo produttivo e non temono la flessibilità.

Sono imprese dove si pratica la partecipazione diretta (non sindacale) senza che le organizzazioni sindacali locali cadano nella sindrome del paradosso dell’inversione dei ruoli.

Le imprese sono indotte ad introdurre programmi partecipativi principalmente per avvalersi in modo continuativo e regolare di flussi di informazione dal basso verso l’alto, fondamentali per la gestione di processi produttivi complessi e perciò altamente vulnerabili (partecipazione consultiva), ma anche per promuovere la capacità dell’impresa di adattarsi alle mutevoli condizioni e richieste del mercato (partecipazione operativa).

La flessibilità non è numerica ma temporale, funzionale e retributiva.

Insomma si è riprodotto, su scala ridotta, il modello tedesco: pace sociale, partecipazione e flessibilità temporale.

Tratto da “Nel Merito“: