Intervista ad Antonia Chiara Scardicchio, docente di Pedagogia, Università di Foggia
Viviamo in una fase culturale, politica ed economica dominata dall’uso e, più spesso, dall’abuso della parola “cambiamento”. Vorremmo che tutto cambiasse: la politica, l’economia, il mondo del lavoro, le prospettive per il nostro futuro, le nostre famiglie, le nostre stesse vite, forse. Siamo profondamente affascinati dall’idea che tutto improvvisamente e quasi magicamente possa cambiare, in meglio naturalmente. Chiunque faccia appello alla nostra volontà di cambiamento, trova terreno fertile per la propria proposta o, spesso per la propria propaganda politico-economica.
E’ sufficiente che ci venga prospettata la possibilità di cambiare, non diamo alcuna importanza al contenuto del cambiamento. Non siamo più in grado di valutare se quella proposta, effettivamente esista e se sia realistica, credibile, attuabile. Non ci interessa nemmeno soffermarci a comprendere se condividiamo o meno la modalità con cui questo ipotetico cambiamento dovrebbe avvenire. Vi aderiamo incondizionatamente, per, poi, abbandonare con la stessa rapidità e con particolare risentimento coloro che ce l’hanno proposto, qualora il cambiamento non si verifichi con la dovuta rapidità o non ci venga fatto credere che si stia effettivamente attuando. Infatti, è sufficiente l’idea che il cambiamento sia in atto, del resto non ci interessa nemmeno occuparci, riteniamo di avere troppo poco tempo per perderlo in dettagli trascurabili, che riteniamo competano ad altri e non a
noi. Ci poniamo nella condizione di essere disposti a subire il cambiamento, ma non a produrlo, a crearlo, a realizzarlo. Così nemmeno cerchiamo di comprendere gli effetti che determinati cambiamenti potrebbero produrre a livello culturale e sociale, anche su noi stessi. Siamo convinti, innanzitutto, che il cambiamento debba arrivare dall’esterno, ad opera di altri, di uomini forti che, come nelle favole, dovrebbero saper soddisfare tutti i nostri desideri in un attimo. Proiettiamo su chi cerca di blandirci con proposte inconsistenti o confuse la nostra “speranza”. Ed è qui che si annida il pericolo… la speranza, dunque, può essere una questione pericolosa.
La speranza è questo il tema a cui vogliamo dedicare questa breve riflessione e per farlo ci siamo avvalsi delle intriganti riflessioni di Antonia Chiara Scardicchio, docente di pedagogia all’Università di Foggia, tra i promotori del progetto della Hope School, un gruppo di ricerca che dal 2014 opera per connettere accademia e contesti extra-accademici, realizzando un ciclo di seminari sul tema della “speranza” dedicato agli studenti universitari e non.
L’originalità delle riflessioni della Scardicchio vanno ricercate soprattutto nel rovesciamento del concetto stesso di “speranza”, che prevale nel senso comune.
Redazione: Chiara, perché sostieni che la speranza è una questione pericolosa?
Scardicchio: Storicamente chi spera è chi attende, chi “pericolosamente” aspetta, che qualcuno o qualcosa arrivi a salvare, senza sentirsi impegnato ad essere personalmente spinta e motore. Culturalmente questa visione dipende da una errata percezione anche del messaggio cristiano, che ha fatto coincidere questa “attesa” con la rassegnazione. E dunque, con l’immobilità. Nessuna spinta, nessuna testa si solleva: occhi bassi, mani giunte. E proprio perché abbiamo sviluppato questa equivocata speranza, che oggi siamo dissennati dalla disperazione su più fronti.
R.: In che senso?
S.: Scientificamente la disperazione corrisponde alla percezione di impotenza, al sentire che “tanto è inutile” e che sfocia nella espressione tanto cara ai cinici: “chi te lo fa fare?”. Filosofia terrificante.
R.: Eppure molto diffusa…
S.: Sì. “Chi te lo fa fare?” è una cultura: quella di chi riconosce che vale la pena solo “se ci
guadagni”, vale la pena prendersi a cuore qualcuno o qualcosa solo se il registro delle entrate è in attivo, solo se riguarda i fatti tuoi e non quelli degli altri, solo se hai garanzie e assicurazioni. Insomma: loro sono quelli furbi. Tutti gli altri sono pazzi, illusi, visionari, idealisti: tutti gli aggettivi del nostro vocabolario che solitamente adoperiamo per guardare, con tenerezza sì, ma anche con compassionevole … disprezzo, quelli che chiamiamo “don Chisciotte” per dire che… fanno ridere.
R.: Eppure vogliamo il cambiamento… ma solo le persone che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo lo cambiano davvero, non i cosiddetti “savi”.
S.: Sì, il “folle” incarna una razionalità, una visione del mondo, una possibilità/modalità di esistenza. Sono loro che cambiano le cose, perché hanno un’altra idea di “speranza”. Sperare ha la stessa radice etimologica di una parola anglosassone che tutti conosciamo, non foss’altro per un personaggio buffo dei cartoni animati di tempo fa: speed. Speed! Allora sperare coincide con la spinta. Chi spera non attende: si muove, si spinge. Alza la testa e muove le gambe. Sì, incanto e azione. Tutte e due, senza contraddizione. Ecco la speranza è il contrario del destino: è rivoluzione, è azione per il cambiamento. Sovversione della lamentazione. Coraggio per scorgere quel che la disperazione – accuratamente – impedisce alla ragione di vedere. Restituire alla ragione visione mediante l’immaginazione. Ma non si può farlo da soli, non si può intonarlo da sé questo controcanto alla lamentazione.
R.: Cosa intendi dire esattamente?
S.: I giorni disperanti sono di tutti. E se non vi fossero, allora sì che si dovrebbe dubitare della ragione che mai dispera. Ma il senso umano del creare è nel non ristagnare in quel disperare. E’ nel darsi il cambio nel canto, quando giunge la propria ora della lamentazione. Progettare è allora verbo di speranza – scientificamente intesa, non come vaga attitudine ma come spinta all’impresa – e, insieme, verbo di comunione. E soprattutto progettare è verbo, ovvero movimento, smottamento, innamoramento. Innamorarsi della realtà coincide col rischio e con la creazione. Col desiderio di ingravidare, col proprio slancio, il reale. L’agire muove dalla spinta di sottrarsi allo scacco ed al cinismo del “non c’è più nulla da fare”. E’ la possibilità di quella risposta “sorprendente” che, secondo la Arendt, è il miraculum possibile dell’umano. “ Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile”.
R.: Questa capacità di azione richiede fiducia e coraggio, ma soprattutto immaginazione.
S.: Assolutamente sì. E’, in fondo, il senso della vita stessa, la pienezza e l’esplosione della voglia di vivere, in cui vivere non è solo esistere, ma esserci , come da esortazione heideggeriana. Anche solo provare ad esserci : non da uomo solo ben piantato per terra, ma da uomo che ha anche il coraggio – che è poetico e politico – di volare con Ronzinante, trasformandolo in Clavilegno, come in Don Chisciotte. Che a restar fermi son bravi tutti. A guardare don Chisciotte lanciarsi in un’impresa contro i mulini e a ridere di lui non ci vuole coraggio. E neppure intelligenza. Basta il cinismo. L’incapacità di immaginare non è sinonimo di razionalità, ma del suo impoverimento. Senza immaginazione la ragione cessa d’esser tale. E’ questa la follia da temere, non quella che ci fa lottare contro i mulini a vento, ma quella che non ci fa alzare dal divano, quella modalità di vivere dove l’apprendimento coincide col sopravvivere e non con la ricerca. Non c’è evoluzione, non c’è balzo, non c’è rischio, è vero, ma neppure libertà. Vivere perde ogni possibilità di scelta e coincide con l’arrendersi.
Dunque, la speranza è questione pericolosa nella misura in cui è concepita come pura attesa di qualche accadimento esterno, come rassegnazione, immobilità, assenza di fiducia, coraggio e immaginazione. In una parola rinuncia a scegliere, perdita della libertà. In questo modo non possiamo essere noi il motore del cambiamento, non accettando di rischiare e di provare a creare. Affidiamo ad altri, a ciò che è esterno ogni possibilità di trasformazione della realtà e, dunque, di creazione. Ci arrendiamo allo stato in cui ci troviamo senza alcuno slancio vitale, senza capacità di volare, di immaginare un modo diverso di essere come singoli o come gruppi sociali.
Chiara Scardicchio non ha voluto, però, solo esprimere queste sue considerazioni, ma ha provato effettivamente ad incarnarle, diventando essa stessa un Don Chisciotte, capace di immaginare e costruire, di agire per il cambiamento attraverso il suo progetto della Hope School, i cui seminari, aperti a giovani universitari e non, intendono diffondere la cultura della speranza, per essere occasioni di formazione e di conoscenza anche attraverso suggerimenti bibliografici, come quelli che Chiara Antonia Scardicchio ci elenca qui di seguito.
Il piccolo ed il grande, lo strazio e il candore, la morte e la vita: complessità della nostra esistenza e della nostra Grande Domanda intorno alla ricerca di Felicità possibile. Qui, io ho trovato uomini e donne che mi hanno insegnato i nessi che legano dolore e apprendimento, taglio e bellezza.
– Guido Marangoni, Anna che sorride alla pioggia. Storia di calzini spaiati e cromosomi rubati, Sperlinger & Kupfer 2017
– Bebe Vio, Se sembra impossibile allora si può fare. Realizziamo i nostri sogni, affrontando col sorriso ostacoli e paure, Rizzoli 2017
– Christiane Singer, Del buon uso delle crisi, Gruppo Editoriale Viator 2015
– Bebe Vio, Mi hanno regalato un sogno. La scherma, lo spritz e le paralimpiadi, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli 2017
– Alessandro D’Avenia, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori 2016
– Alessandra Erriquez, Ho scelto le parole. Genitori, dolori, rivoluzioni, Edizioni La Meridiana 2018
– Antoine Leiris, Non avrete il mio odio, Corbaccio 2016
– Vito Calabrese, Portare la vita in salvo, La Meridiana 2016
– Boris Cyrulnik, La vita dopo Auschwitz, Come sono sopravvissuto alla scomparsa dei miei genitori dopo la Shoah, Mondadori 2014
– Boris Cyrulnik, Autobiografia di uno spaventapasseri. Strategie per superare un trauma, Cortina Raffaello 2019
– Boris Cyrulnik, Di carne e d’anima. La vulnerabilità come risorsa per crescere felici, Frassinelli 2007
– Boris Cyrulnik, I brutti anatroccoli. Le paure che ci aiutano a crescere, Frassinelli 2002
– Erri De Luca, Chisciotte e gli invincibili. Il racconto, i versi, la musica, Fandango Libri 2017
– Alex Zanardi, Volevo solo pedalare, Rizzoli 2016
– Paola Natalicchio, Il regno di Op, Einaudi 2013
– Concita De Gregori, Mi sa che fuori è primavera, Feltrinelli 2016
– Gabriele Romagnoli, Coraggio!, Feltrinell 2016
– Gabriele Romagnoli, Solo bagaglio a mano, Feltrinelli 2017
– Mariapia Veladiano, Ma come tu resisti, vita, Einaudi 2013
– Chandra Livia Candiani, Tenerezza. Incontro con Chandra Livia Candiani, Edizioni Romena 2017
– Massimo Gramellini, Fai bei sogni Longanesi 2012
– Mario Calabresi, Non temete per noi. Storie di ragazzi che non hanno avuto paura di diventare grandi, Mondadori 2015
– Mario Calabresi, Cosa tiene accese le stelle. Storie di italiani che non hanno mai smesso di credere nel futuro, Mondadori 2011
– Mario Calabresi, La fortuna non esiste. Storie di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi, Mondadori 2010
– Giulio Cesare Giacobbe, Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita, Ponte alle Grazie 2013
– Brené Brown, La forza della fragilità. Il coraggio di sbagliare e rinascere più forti di prima, Vallardi Editore 2016
– Brené Brown, I doni dell’imperfezione. Abbandona chi credi di dover essere e abbraccia chi sei davvero, Ultra 2017