di Katia Marcantonio –
Cos’è la violenza? Apparentemente l’esercizio non autorizzato della forza bruta. Perlomeno è questa l’accezione di violenza che esercita più eco mediatica e più immediata riprovazione. Ma è proprio così? O gli eventi del 15 ottobre a Roma possono fungere da occasione di riflessione, alias da spunto per un approfondimento sulle forme di violenza più silenti? E’ questa la chiave di lettura per chi avesse il coraggio di affrontare un tema sfidante come la categorizzazione della violenza in modo spassionato e senza veli. Ma soprattutto in modo indipendente. Al di là del bene e del male.
Lettera – diario del 15 ottobre 2011
Oggi, 15 ottobre 2011, la città in cui vivo, Roma è in tumulto per via della protesta di United for Global Change che, fortunatamente solo in parte, è diventata violenta. La manifestazione coniuga la forma tradizionale del corteo con la contemporaneità in 81 Paesi e 951 città del mondo, alias con il connotato emergente dell’azione globale in tempo reale, global and in real time si direbbe nella lingua planetaria. Ma non è solo l’elemento geografico, favorito dai siti di aggregazione sociali come Facebook e Twitter, a garantirne una trasversalità dirompente. Infatti, gli indignati, così si chiamano i manifestanti, coagulano e rappresentano un dissenso trasversale a più gruppi sociali, soprattutto alle loro fasce più giovani: sono studenti, precari, operai, famiglie del ceto medio, professionisti capaci di attrarre e ricomporre attorno a sé, come in un caleidoscopio, un disagio diffuso e percepito ormai in tutta la società civile. Meno eterogeneo, sebbene non univoco, è l’oggetto del dissenso che esprimono. Sono indignati per il modo in cui le cosiddette istituzioni gestiscono e affrontano problemi economici e sociali, come la crisi economica, anzi, spesso, per il modo in cui esse finiscono per omettere di affrontarli. Lo slogan mondiale degli indignati è “Noi la crisi non la paghiamo”. Gli indignati non vogliono che il peso della crisi mondiale continui a riversarsi sulle loro vite da troppo tempo erose o private di ogni qualità, al punto da non avere più progettualità e futuro. I destinatari della protesta non sono solo politici, banchieri, faccendieri, bensì, più in generale un sistema di vertici di potere politico-finanziario che, dopo le elezioni politiche, opera scollato dalla vita reale della comunità civile, salvo poi a questa ricorrere, imponendo misure da lacrime e sangue, al fine di evitare il collasso per mala gestio.
Questo movimento di matrice globale, ma di trasposizione locale, interessa e muove consigli, pareri, attenzioni, analisi di intellettuali e figure di spicco dello stesso mondo delle istituzioni e della finanza.
Laurence Lessig, Professore ad Harvard, in occasione dell’occupazione di Zuccotti Park, nell’area finanziaria di New York, ha sottolineato l’importanza di non imbrigliare la protesta degli indignati in una contrapposizione ideologica tra la destra e la sinistra o, peggio, tra il marxismo e il capitalismo, cioè in una lettura anacronistica che contribuirebbe ad indebolirne le potenzialità realmente innovative. Secondo l’acume giuridico di Lessig, la vera causa dell’indignazione non è solo il funzionamento del sistema finanziario simboleggiato da Wall Street, ma l’alterazione del funzionamento della democrazia, in primis del meccanismo di rappresentanza con il quale questa si legittima. Alterazione che, secondo Lessig, passa per Wall Street, perché essa identifica lo snodo dei flussi di risorse finanziarie che condizionano i programmi della politica americana. E questo gli indignati lo hanno ben capito.
Dal canto suo, anche Paul Krugman, premio nobel per l’economia ha ravvisato nel grido degli indignati una domanda di giustizia dal basso, innanzitutto volta a frenare gli eccessi del mondo della finanza, soprattutto quell’eccesso di irresponsabilità e di impunità secondo il quale si vuol continuare a percepire bonus milionari e, nel frattempo, chiedere a chi sta in basso misure di salvataggio.
In Italia, Mario Draghi, governatore uscente della Banca d’Italia, tra i maggiori esperti di finanza, dichiara di comprendere il disagio degli indignati, in particolar modo dei più giovani che, pur qualificati e volenterosi, non riescono a trovare lavoro e, di fronte alla deriva violenta della manifestazione, commenta “Che peccato”. Come dargli torto.
Eppure, solo una lettura gratuitamente negazionista può non riconoscere che proprio quest’esplosione di violenza ha dato, in termini di risalto mediatico e di considerazione dell’opinione pubblica, un mordente maggiore al fenomeno. In effetti, è la violenza come manifestazione della forza bruta quella che suscita la riprovazione più ferma e immediata, perlomeno da parte della cd. opinione pubblica, ma è anche quella che viene più facilmente identificata come violenza dalla massa. Ritengo che questa univocità di concezione della violenza da parte dei più, sia essa indotta dalla superficialità o da altro, abbia portato a trascurare una riflessione più approfondita sul concetto di violenza. Ritengo, altresì, che questa lacuna abbia comportato una sottovalutazione della portata delle manifestazioni di violenza più sottilmente paludate e, in quanto tali, non meno perniciose dell’esercizio incivile della forza fisica. Per esempio, ci sono mali apparentemente non violenti, o non concepiti come tali, il buonismo, a mio parere, che mietono innumerevoli vittime e innescano vere e proprie catene di danni alla società civile. Ci sono associazioni violentissime come la mafia che, come notava l’indimenticabile giudice Giovanni Falcone, ricorrono alla violenza intesa come uso della forza fisica e delle armi solo alla stretta occorrenza. Insomma, si ricorre alla forza bruta solo se indispensabile.
Allora, vale davvero la pena approfondire e chiedersi: cos’è veramente la violenza? Qual è il suo connotato intrinseco, la sua essenza direbbero i filosofi. In quante forme si manifesta, come nasce?
Prima di proporre alcuni spunti per una risposta, onde evitare facili, quindi grossolane strumentalizzazioni, ci tengo a ribadire che stigmatizzo la violenza in quanto uso non consentito della forza, come oggi avvenuto a Roma durante la manifestazione degli indignati e che considero questo evento solo ed esclusivamente come spunto, o se si preferisce, come occasione di dibattito per la riflessione che segue .
A ben guardare, il grido degli indignati, “Noi la crisi non la paghiamo”, riecheggia più di un dramma della storia della civiltà giuridica fino all’approdo al cd. Stato di diritto, in particolare rievoca il dramma dell’applicazione del principio di responsabilità anche ai potenti, per di più anche mentre sono sullo scranno, sia esso di ministri, banchieri o altro. Si tratta di un dramma piuttosto sfidante: Norimberga insegna che i potenti possono arrivare a rispondere quando sullo scranno non ci sono più, anche se la responsabilità è per crimini contro l’umanità, per intenderci: 200 campi di concentramento, l’assurdità atroce di docce di gas, l’idea feroce di paralumi in pelle umana, 6 milioni di ebrei assassinati e altri orrori. In sintesi, una responsabilità acclarata a fosse comuni piene. Dal canto suo, Salò insegna che la responsabilità a scranno perduto può decretarla la piazza, con una soluzione violenta. Anche in questo caso, a fosse comuni stracolme.
A non essere ipocriti o perbenisti, a seconda dei casi, in Italia, la stessa faticosa conquista dello stato unitario, cioè lo stesso Risorgimento italiano, è costellata di violenza, di lotta, di sangue. Il magnifico film “Noi credevamo” di Mario Martone mostra, a mio parere, con lo spessore del capolavoro, che l’Italia Unita è costata lacrime e sangue, e non certo dei trasformisti o, comunque, degli illesi che, alla fine, sulle poltrone dello Stato unitario hanno adagiato parti di gran lunga ben protette. Del resto, chi è dedito all’occupazione di poltrone, di solito, si arrocca sempre ex post, cioè dopo le lacrime e il sangue volti a costruire, difficilmente prima. Si badi: non è solo la vecchia storia del salto sul carro del vincitore; bisogna osservare meglio, oltre i detti comuni: è che chi costruisce il carro, spesso, non finisce per stare tra quelli che lo conducono, ove non rischi, addirittura, di finire sotto le ruote.
Tornando al quesito, direi che la violenza si estrinseca con l’intenzione, nei casi più primordiali, con l’istinto alla sopraffazione sull’altro. In questo senso, Einstein parlava di bramosia di potere e Freud di pulsioni distruttive non celate o edulcorate dai processi di incivilimento basati sul rafforzamento dell’intelletto, sui processi di identificazione, su un’interiorizzazione dell’aggressività non sempre e non solo positiva.
La violenza, dunque, è uno dei modi per dominare l’altro al di là del suo consenso e di un progetto condiviso. L’esempio più eclatante è la violenza sessuale: appropriarsi arbitrariamente del corpo dell’altro. Eppure, non necessariamente la violenza è brutalità, impeto, aggressività, reazione di pancia. La madre può avere verso il bambino reazioni di pancia che non sono violente, – anzi, deve averle per proteggerlo, soprattutto nel periodo empatico in cui il bambino non è capace di esprimersi a parole -, l’aggressività, come Konrad Lorenz insegna, può semplicemente nascondere una paura, e non necessariamente implicare il dominio arbitrario o gratuito sull’altro. Lo stesso Freud concepisce le pulsioni distruttive, come l’aggressività, in rapporto speculare rispetto alle pulsioni costruttive e richiama il concetto di solidarietà verso interessi comuni, di identificazione in valori comuni come elemento a sostegno del potenziale sociale e pacifico delle pulsioni costruttive.
D’altro canto, non sempre alla violenza lo stesso ordinamento giuridico associa un connotato negativo o repressivo: è il caso della legittima difesa previsto dal diritto penale.
Nel complesso, un elemento caratterizzate la violenza è la determinazione ad imporre qualcosa all’altro, senza prima conoscere, considerare, ponderare, analizzare, riflettere. La violenza, quindi, nasce dalla scelta consapevole, dolosa si direbbe, di servirsi dell’altro o di coinvolgerlo senza ascoltarlo o considerarlo. Nel fare ciò, quasi sempre, i soggetti violenti sfuggono, ad ogni autoanalisi; sembra, cioè, che, insieme al rifiuto di conoscere e comprendere a fondo il contesto che unilateralmente dominano, rifiutino innanzitutto di conoscere se stessi, e tendano ad essere autoreferenziali. In altri termini, la violenza ha due connotati essenziali: non nega all’altro utilità, bensì valore, perciò lo strumentalizza. Per tornare all’occasione della riflessione, gli indignati si sentono oppressi perché chiamati a salvare un sistema che non li valorizza, gli nega qualità della vita e, nel frattempo, gli chiede sempre più risorse per restare a galla con le sue disfunzioni, la sua mala gestio. In un solo termine, un sistema che li sfrutta, talvolta giungendo al paradosso di ricordare che li rappresenta. Un paradosso viziato di autoreferenzialità, dal momento che non spinge alla riflessione sul come rappresentare meglio la società globale at large. Emerge allora un terzo elemento tipico della violenza: la plateale negazione della coerenza di premesse e conseguenze fattuali – per esempio la dichiarazione di una guerra per esportare la civiltà e la pace, i tagli applicati indiscriminatamente a tutte le fasce sociali o solo a quelle meno abbienti secondo il noto cliché forte coi deboli debole coi forti -, la negazione di ciò che è evidente e la contestuale epurazione di tutti coloro che, evidenziando tale incoerenza, si rifiutano di operare quella scissione, fascista in pectore, fra forma e sostanza, – per esempio tra realtà attuale e realtà mediatica -. Per questo, la più perniciosa delle violenze può avere come esito la silente epurazione di chi pensa o l’acquisto di mercenari dell’informazione, alias meretrici intellettuali, nei casi più gratuiti, yesman, che generalmente, al di là della mise da servi tuttofare, si rivelano la peggiore categoria di mediocri dittatori.
Ne deriva che la violenza meno vistosa, quella senza sangue, non accetta la discussione, non si mette in discussione, è apodittica, si autocelebra e, soprattutto, reprime o mistifica il dissenso, se necessario, nel sangue e con il sangue, in tal modo accompagnandosi alla forma di violenza più gratuita, più facile, meno strategica, eppure più strumentalizzabile: la forza bruta.
Per concludere, la violenza è servirsi dell’altro senza vederlo, è ignorare l’altro, imponendogli, al contempo, i propri fini. In un contesto violento sottile, la ricerca del consenso dell’altro, ove sopravvive, è strumentale al proprio obiettivo, dunque di mera facciata. Essendo tale, può essere oggetto di coercizione, nei casi più fortunosi, di acquisto. Va, dunque, tenuto presente che, benché l’indifferenza possa essere un terreno ben fertile per la violenza, quest’ultima è sempre relazionale, lontana dalla mera e proterva indifferenza priva di ricadute sulla vita dell’altro. Basti pensare al suicidio che, pur essendo una fine violenta, un atto di violenza finale verso il proprio essere, di solito, non fa parlare di violenza, ma di tragedia.
Alla luce di questo excursus, credo che la protesta degli indignati meriti attenzione come segnale di necessità di dialogo e di discussione, al di là degli episodi di violenza fisica nei quali è sfociata. Soprattutto, credo che sia doveroso, alla luce di questa protesta, iniziare a riflettere sulla violenza che si estrinseca come male diverso dalla mera imposizione della forza fisica. Mi piacerebbe che la mia riflessione suscitasse un dibattito che approfondisca la natura della violenza a partire da un’analisi contestuale a tutti e tre gli elementi costitutivi che ho qui individuato: l’imposizione unilaterale all’altro a proprio vantaggio; la strumentalizzazione o sfruttamento dell’altro; il paradosso.