Il potere di tutti – Bisogna seminare anche nel deserto
di Rossella Aprea –
Il Paese sta lentamente, ma inesorabilmente scivolando nelle sabbie mobili della burocrazia, della corruzione, dell’illegalità, della crisi economica, ma noi cittadini dove siamo? Le risposte dei più sono passive “Ma noi che possiamo fare?” o peggio rassegnate “Tanto così va il mondo”, ma il Paese e la democrazia vivono attraverso ciascuno di noi. Ecco la forza nuova di Aldo Capitini “Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto” e ancora “La vita è lotta. Non c’è cosa di valore che non costi”. Tornare a comprendere il valore della responsabilità di tutti nei confronti del bene comune, lottare, partecipare per le cose che contano e rifiutare una scontata assuefazione o tacita accondiscendenza all’attuale situazione politica e sociale sono i primi passi verso il cambiamento.
Scopro Aldo Capitini una sera di alcuni mesi fa, mentre, pigiando casualmente sul telecomando nel mio vagare da un canale all’altro, inciampo letteralmente in una trasmissione a lui dedicata su Rai Storia. Di Capitini non avevo mai sentito parlare. Per motivi anagrafici la cosa è certamente spiegabile, quasi inevitabile, ma dato lo spessore del personaggio mi stupisco di non aver mai avuto modo di saperne nulla prima. Capisco, poi, rapidamente il perchè. Filosofo, politico, antifascista, poeta, educatore, sostanzialmente un uomo indefinibile, non categorizzabile e per questo unico, religiosamente politico senza esserlo e senza cercare di esserlo. Un uomo dall’aria austera dietro gli occhiali spessi, dotato di un indomabile spirito giovanile, aperto ed innovativo, in perenne ricerca e in perpetuo movimento, pronto a guidare azioni che entravano nella politica e compromettevano i politici, pronto ad affrontare attraverso azioni collettive, che organizzava, i più svariati problemi politici. Un uomo d’azione, dunque, scomodo per i partiti e per la Chiesa.
Capitini è e resta il grande sostenitore italiano della nonviolenza di stampo gandhiano, ideatore e promotore della marcia della pace di Assisi.
Mi colpisce di lui immediatamente l’immagine inusuale di pacato e lucido rivoluzionario, un uomo dall’atteggiamento straordinariamente nuovo, fuori dagli schemi, diretto e concreto, religiosamente pragmatico, profondamente religioso, ma aspramente critico nei confronti della Chiesa. Il 21 ottobre 1968, qualche giorno dopo la morte di Capitini, il leader socialista Pietro Nenni scriverà in una nota sul suo diario: “E’ morto il prof. Aldo Capitini. Era una eccezionale figura di studioso. Fautore della nonviolenza, era disponibile per ogni causa di liberta’ e di giustizia. (…) Mi dice Pietro Longo che a Perugia era isolato e considerato stravagante. C’e’ sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e Aldo Capitini era andato contro corrente all’epoca del fascismo e di nuovo nell’epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello“.
Forse troppo per una sola vita umana, ma bello. Ecco, una vita umana che ci lascia un messaggio potente, e getta numerosi semi: nonviolenza, pace, obiezione di coscienza e il valore essenziale di un altissimo senso civico, che trova la sua espressione nella partecipazione di tutti, nella “omnicrazia”, cioè il potere di tutti, esigenza non risolta della democrazia sia rappresentativa che diretta. Se il Paese oggi sta scivolando nelle sabbie mobili della burocrazia, della corruzione, dell’illegalità, della crisi economica, è lecito domandarsi noi cittadini dove eravamo? In quale e per quale progetto politico, sociale siamo vissuti e ci siamo impegnati? Passive e di comodo risulteranno le risposte dei più a questa domanda “Ma noi che possiamo fare?” o peggio “Tanto così va il mondo”. Attiva, energica e potente appare, invece, la risposta di Capitini “Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto”. MA IO NON ACCETTO. E’ questo il primo passo da compiere, il rifiuto verso una scontata passiva assuefazione e tacita accondiscendenza alla realtà politica e sociale in cui viviamo, ma anche rifiuto della realtà naturale “Non è detto che sia immutabile la realtà dove il pesce grande mangia il pesce piccolo“.
Per Capitini è chiara l’assunzione di responsabilità da parte di ciascuno – Chi accetta questo mondo non ne diviene forse responsabile? – Vi è un vizio intrinseco allo Stato, quale che sia il regime e questo vizio sta nella tendenza inevitabile dell’istituzione all’irrigidimento burocratico.
“Quanto più gli organi burocratici si irrigidiscono, tanto più debbono rimediare i singoli cittadini, studiando tutti i problemi, parlando, ascoltando le minoranze, interiorizzandole come stimolo e come contributo, non eliminandole”. Capitini chiama all’appello i cittadini. Tutti. Per lui il compito dello Stato è e deve essere puramente amministrativo, un semplice fornitore di servizi pubblici, senza esaltazioni etiche, sacre e celebrative, sono i cittadini organizzati che devono gestire la vita pubblica.
Una civiltà assoggettata allo Stato, secondo il suo modo di vedere la realtà, non è destinata a durare. La battaglia contro lo Stato, come contro la Chiesa, muove dallo stesso principio che il nemico è sempre lo stesso: il potere. Il potere viene dall’alto e comporta obbedienza dal basso o per indottrinamento o per paura. Dirà Norberto Bobbio “E dall’obbedienza derivano il conformismo, la passività, l’inerzia spirituale, la rassegnazione al male, il senso dell’aridità della storia, della gratuità degli eventi o peggio della crudeltà invincibile di tutto ciò che vive e si perpetua senza mutamento”.
E’questa la risposta ulteriore al potere dall’alto, alla passività, al conformismo: l’omnicrazia.
Non si tratta di sostituire una nuova oligarchia alla vecchia, di cercare un leader rispetto ad un altro. Qui si tratta di concepire un modo diverso di vivere la democrazia, partecipando attivamente attraverso la creazione di centri, di comunità di persone che nel territorio si confrontino su valori e problemi, cercando insieme soluzioni. La democrazia, anche dei partiti, dei sindacati, delle amministrazioni non può vivere se nel circuito dei territori non ci sono comunità capaci di assumersi una quota di responsabilità per il bene comune. Perciò, di fronte all’attuale declino dei partiti e dello Stato bisogna fare appello alla responsabilità di tutti senza aspettare. “Bisogna cominciare qui ed ora”, ma non bisogna avere fretta.
Le idee di Capitini prendono corpo e hanno il sapore di un’utopia che diventa e può diventare il sogno di tanti. E quando un’utopia diventa il sogno di tanti nasce un progetto politico.
Oggi, nel nostro Paese abbiamo un bisogno disperato di un progetto politico vero, di una visione proiettata verso il futuro per cambiare un sistema fatto di partiti che praticano una politica inaccettabile, di una realtà scolastica in stato di abbandono, di una società in cui i rapporti umani interpersonali vanno poco oltre l’interesse economico.
Capitini ha aperto una strada, ha tracciato un sentiero vivo, libero, aperto, nuovo, etico e politico allo stesso tempo, attivo, per il quale forse varrebbe la pena di incamminarsi pur non conoscendone il traguardo. Solo un popolo in cammino può cambiare.
Se il traguardo è troppo lontano perchè possiamo scorgerlo, la traccia che Capitini ci ha lasciato è, però, sotto i nostri occhi. “L’eticità più assoluta guadagna dall’accendersi di un soffio religioso; la legge morale, non perdendo nulla del suo comando, deve suscitare amore e farsi slancio limpido; dobbiamo essere musica e non statua. Questo sembra un sogno, un qualcosa di poetico, e credo invece che sia prova di realismo. Vi sono forze potenti da fronteggiare, e solo un’opposizione appassionata può vincerle: un’opposizione che matura come un capolavoro di poesia…Oggi c’è bisogno di molto. …Bisogna fronteggiare tante tentazioni individualistiche e materialistiche con un qualcosa di potente e porre perciò all’universale etico…, alla religiosità generica, un centro religioso”.
Per affrontare questa crisi è necessario un rinnovamento che sia”.. piu’ che politico, e la crisi odierna e’ anche crisi dell’assolutizzazione della politica e dell’economia”, scriveva Capitini nel 1943. L’importante è gettare il seme. Della stessa idea è il poeta tunisino Moncef Marzouki con la sua potente metafora del deserto:
…Io vengo dal deserto, e ho visto mio nonno seminare nel deserto. Non so se abbiate idea di cosa sia seminare nel deserto. È seminare su una terra arida e poi aspettare. E se cade la pioggia, si farà il raccolto. Non so se abbiate mai visto il deserto dopo la pioggia. È come la Bretagna! Un giorno camminate su una terra completamente brulla e poi, piove appena, e vi chiedete come sia potuto accadere ciò che è sotto i vostri occhi: fiori, frutti, … Tutto semplicemente perché i semi erano già lì … Questa immagine mi ha veramente segnato quando ero bambino. E quindi bisogna seminare! Anche nel deserto bisogna seminare! È in questo modo che io vedo il mio lavoro. Io semino e, se piove domani, bene, se no almeno i semi sono là. Che cosa accadrebbe se io non seminassi? Su cosa cadrebbe la pioggia? Che cosa crescerebbe: le pietre? È questo l’atteggiamento che io adotto: seminare nel deserto. (Moncef Marzouki, maggio 2010)
Anche per l’Italia è il momento di gettare il seme nel deserto, che ora è tutto intorno a noi, perchè possa fiorire il nuovo prima o dopo. Dunque, siamo chiamati tutti, oggi più che mai, ad un compito impegnativo, faticoso, estremamente difficile, ma pieno di speranza: a seminare e aspettare che la pioggia arrivi.