Co-work: il futuro del lavoro vivo
di Giuseppe Allegri –
Appunti su un vociare che mi rimbalza in testa da mesi, anni, dentro il confronto attivo con molte/i altre/i quintari-e intorno alle questioni del lavoro (e della possibile emancipazione da esso, si sarebbe detto in altri tempi…) in una perdurante epoca che vi vuole impoverite, saccheggiati, precarizzate, di fatto incapaci di pensarci altrimenti, dentro questo quadro depressivo che ci hanno costruito addosso.
Le multi-attività liberamente scelte contro lo sfruttamento della “disoccupazione attiva”
Dentro la perdurante depressione economica, sociale e psichica dell’ultimo lustro ci troviamo nella condizione più critica di quella tentata e faticosamente praticata fuga consapevole e rischiosa dalla subordinazione all’etica del lavoro, del laborare, «vacillare sotto un carico gravoso» (Gruppo Krisis, 2003) e della sua condizione esistenziale di asservimento e minorità, sperimentata provando a valorizzare le «eccedenze cognitive» (E. Rullani, 2004, p. 395) delle pratiche di sottrazione al comando burocratico-baronale dentro le università e al dominio delle rendite di posizione e delle corporazioni nella falsata e fallimentare economia capitalistica della conoscenza.
Siamo in mezzo al guado, sopraffatti dalla recessione civica e culturale: «l’accumulazione del capitale si effettua a mezzo di esclusione, di sfruttamento non remunerato della vita, di “disoccupazione attiva”» (C. Marazzi 2012). Siamo al ribaltamento esistenziale ed antropologico della proposta di Disoccupazione creativa avanzata da Ivan Illich (2005 [1978]) nel cuore degli anni ’70 del Novecento, come via di fuga dalla schizofrenia del tardo-capitalismo, recuperando in autodeterminazione, giustizia sociale, possibilità di sperimentare nuovi modi di stare assieme e fare impresa, nella società delle multi-attività, avrebbe detto André Gorz. È «il governo del pieno impiego precario» (e della suddetta disoccupazione attiva), cui si affianca la schiavitù dell’«uomo indebitato»: «l’austerità, i sacrifici, la produzione della figura soggettiva del debitore non rappresentano un brutto momento da superare in vista di una “nuova crescita”, ma tecnologie di potere, di cui solo l’autoritarismo, che non ha più niente di “liberale”, può garantirne la riproduzione» (M. Lazzarato 2012).
Qui si giocano le “occasioni costituenti della crisi”: la necessità di imporre altre scelte per le politiche pubbliche a livello statuale e continentale è solo un tassello di una più ampia strategia costituente, in cui i soggetti delle “nuove forme del lavoro e del non lavoro” pongono la questione intergenerazionale di come realizzare pratiche di autotutela: venti anni dopo siamo ancora a rivendicare una «Magna Charta delle attività immateriali, saltuarie, servili» (M. Bascetta – G. Bronzini, 1993) e di quelle indipendenti e autonome; quindi un nuovo Welfare a partire dal reddito garantito di base, come nuovo diritto fondamentale per rifiutare tutte le forme di sfruttamento e subordinazione e affermare istanze di autodeterminazione e indipendenza individuale, cooperazione sociale e solidarietà collettiva [Basic Income Network – Italia (a cura di) 2009]. Ma non solo…
Si tratta anche e soprattutto di riappropriarsi dei processi di produzione, condivisione e trasmissione dei saperi, delle conoscenze e del fare impresa: l’auto-organizzazione sociale e la sua forza creativa, di nuove forme del vivere associato e del produrre ricchezze, oltre lo statalismo burocratizzato, parassitario e corrotto e l’individualismo proprietario e corporativo, fondato su inscalfibili rendite di posizione.
È la domanda senza apparente risposta di come pensare l’indipendenza e l’autodeterminazione di quelle singolarità escluse da qualsiasi cittadinanza perché non inquadrate in un contratto di lavoro standard, ma più spesso precarizzate, disoccupate, sottoimpiegate, costrette nell’impresa autonoma fatiscente, condannate alla solitudine, che diviene povertà e miseria nel perdurare degli effetti, devastanti per le persone, dell’infinita crisi depressiva del capitalismo finanziario. Rendendo per certi versi tristemente veritiero quel quadro che Ulrich Beck [2000 (1999), pp. 150-156] vedeva proporsi all’orizzonte del presente e futuro d’Europa, nei «mille mondi del lavoro precari», dove «precari ad alta specializzazione, Working Poor e povertà localizzata» sarebbero divenuti la società degli esclusi che avrebbe dovuto organizzarsi per rivendicare un reddito di cittadinanza e trasformare l’ordine esistente delle cose. Sono le vicine origini della depauperizzazione di quello che abbiamo chiamato Quinto Stato, che incontra l’impoverimento dellf forme tradizionali del lavoro e dovremmo ora avere la forza di esercitare una potenza costituente delle forze del lavoro vivo e depredato.
Saggiamente rivoluzionari, radicalmente intraprendenti: ci tocca di essere contemporaneamente radicali nel rivendicare un nuovo Welfare e pragmatici nell’inventarci nuove forme di impresa sociale che si riprenda la ricchezza prodotta, per redistribuirla ai soggetti saccheggiati dalla finanziarizzazione delle forme di vita e dal dominio delle corporative rendite di posizione.
I consorzi di cittadinanza attiva delle nuove coalizioni sociali.
Sono le “ricchezze del possibile” che i lavoratori della conoscenza e della cultura – indipendenti, autonomi, precarizzati – devono provare a sperimentare nel senso di pragmatiche coalizioni sociali, che definiscano consorzi di nuova cittadinanza attiva. In questo senso le coalizioni sociali sono da intendersi come piattaforme relazionali e operative dove valorizzare positivamente «l’essenza della cultura urbana, cioè la possibilità di agire insieme senza dover essere necessariamente identici» (R. Sennett, 2006 [1974], p. 316). Perciò questa politica delle coalizioni sociali deve avere la forza di attrarre nella propria orbita tutte le forme dell’auto-organizzazione sociale che inventa pratiche di affrancamento dai vincoli oppressivi del lungo trentennio finanz-capitalista; mettendo insieme quei «ceti medi senza futuro» (S. Bologna, 2007), con le nuove forme di organizzazione del lavoro vivo, per riprendere quel filo interrotto di sperimentazioni sociali fuori dalla società salariale e dentro le sperimentazioni di buona vita (Illich, Gorz, Touraine, Offe, tra gli altri) e che già in questa passaggio di secolo avevano provato a immaginare «alternative sociali» «dentro-contro-e-oltre» la servitù volontaria del capitalismo finanziario globale (D. Graber, 2002 e J. Holloway 2012).
Le coalizioni sociali possono essere pensate sia come occasioni per mettere in relazioni l’associazionismo civico e di promozione sociale diffuso nei territori, con le forme embrionali di protagonismo del lavoro autonomo e indipendente di seconda e terza generazione del Quinto Stato; quindi le sperimentazioni delle economie sociali, solidali e collaborative, con le singolarità operanti nei circuiti istituzionali ancora disponibili a pensare una fuoriuscita positiva dai fallimenti della società salariale. Soprattutto un nuovo modo di fare impresa territoriale, di ripensamento dei distretti produttivi del lavoro culturale e dell’economia della conoscenza, dentro l’urgenza di ridurre i costi individuali e collettivi e ottenere reddito attualmente sottratto da intermediari, corruzione, subordinazione alle consorterie, autoreferenzialità del pauperistico capitalismo italiano.
Coworking di nuova generazione? L’impresa rivoluzionaria degli ateliers del lavoro vivo.
Spezzare il circolo vizioso tra scelte dissennate di politiche pubbliche e speculazioni economico-finanziarie – entrambe al servizio della ristrutturazione capitalistica e della sua lotta di classe interna ed esterna – può essere l’obiettivo di chi, nella società, inventa nuovi modi, tempi e luoghi di co-progettazione e co-working, fare impresa sociale, riattivando le filiere produttive del lavoro della conoscenza, senza intermediari e con processi di autogoverno della produzione autonoma artistica, della conoscenza e cultura, avendo la capacità di immaginare nuove possibilità di erogazione di servizi, gestione diversa dei tempi di vita, produzione autonoma di Welfare, etc.
Evidentemente questi spazi divengono anche luoghi e momenti dell’auto-organizzazione delle nuove forme del lavoro della conoscenza, innescando processi di nuovo mutualismo tra pari, cooperazione sociale e produzione di ricchezze per resistere dentro la crisi e prospettare nuove forme di economia sociale, solidale e collaborativa. In ogni caso si devono immaginare pratiche di produzione di reddito che diano certezza economica alla comunità di riferimento e potenza conflittuale da poter agire dentro la trasformazione sociale, per mettere in relazione distretti di autoproduzione che provano a designare un’altra idea di città, che sia la metropoli urbanizzata, piuttosto che i mille tra comuni e province disseminate nel territorio.
È una sfida che tiene insieme trasformazione economico-sociale e federalismo dal basso di un nuovo civismo post-repubblicano, della lontana tradizione italica dell’autorganizzazione delle cittadinanze, tra usi civici e nuove comunanze; tra autogoverno e cooperazione sociale; tra nuova impresa e redistribuzione delle ricchezze.
In questo senso è forse possibile parlare di idee e spazi di Coworking di nuova generazione, per una nuova cittadinanza attiva, che scardina la solitudine individuale ed istituzionale, rispetto all’imbarbarimento della società e inventa nuova sussidiarietà orizzontale come capacità sia di autonomia sociale, produzione di ricchezza dentro la società, sia di trasformazione istituzionale e costituzionalizzazione dal basso delle sfere civili, nel senso di nuove istituzioni comuni e di prossimità, che allude anche a una nuova pratica politica, del diritto alla città.
Ci aspetta un terreno inedito per la mentalità corporativa, familista, conservatrice e timorosa di questo Paese: mettere in dialogo settori della società, professioni, piccola imprenditorialità sempre più dissanguata, insieme con il vasto mondo precarizzato dei Working Poors e dello sfruttamento quotidiano, in cambio di miseria: la barbarie di lavorare in assenza di retribuzione.
Lo abbiamo già detto: è questo il momento di condividere una nuova e impensabile impresa, tanto più urgente, quanto improrogabile. Essere lucidamente visionari per inventarsi quotidiane forme di vita dignitosa e felice dentro l’incubo sociale che ci è dato in sorte. La pretesa di trasformare città, vite, istituzioni a partire da un atteggiamento pragmatico di invenzione sociale, economica e istituzionale, per una nuova cultura imprenditoriale, si sarebbe detto altrove, e per inedite forme di cittadinanza sociale.
Rendere operativi dei dispositivi pratici di incontro tra esigenze individuali e collettive; fare letteralmente un’impresa rivoluzionaria: realizzare degli spazi di coprogettazione delle multi-attività in cui le coalizioni del lavoro vivo (piccola imprenditoria strozzata e lavoratrici e lavoratori poveri e saccheggiati) affermano nuovi mondi possibili: qui e ora. Se non siamo noialtri del Quinto Stato a farlo, chi lo farà per noi!?
Una sola grande unione.