La truffa Volkswagen
di Giuseppe Berta
Un mito vacilla, quello della superiorità del modello industriale tedesco. Quante volte abbiamo sentito vantare la qualità e l’affidabilità dei prodotti tedeschi, soprattutto nel campo dell’automobile! Ancora all’inizio di quest’anno c’era chi auspicava che Fiat-Chrysler si decidesse a vendere il marchio Alfa-Romeo a Volkswagen, che avrebbe saputo valorizzarlo di più. Nei talk-show televisivi l’industria automobilistica tedesca è sempre stata imbattibile: investiva di più in ricerca, sfornava sempre nuovi prodotti e naturalmente le sue condizioni di lavoro erano infinitamente migliori. Peccato che l’eccellenza tecnologica tedesca non sia sempre stata impiegata per un buon fine, perché c’era chi s’ingegnava a falsificare i dati effettivi delle emissioni dei motori diesel progettando addirittura un apposito software.
A Wolfsburg, sede storica della Volkswagen, non avevano fatto però fatto i conti con la vigilanza oculatissima sulla sicurezza delle auto e sui loro effetti inquinanti esercitata negli Stati Uniti. Oltreoceano le case produttrici sono sottoposte a controlli stringenti che portano poi a sanzioni assai onerose. Ora la Volkswagen dovrà ritirare qualcosa come mezzo milione di auto, con una multa da pagare che potrebbe raggiungere la cifra iperbolica di 18 miliardi di dollari. Ci vogliono le spalle larghe del colosso tedesco dell’auto per reggere a un danno simile, dalle gravissime conseguenze sul piano dell’immagine e della reputazione, oltre che sotto il profilo economico (in Borsa la Volkswagen ha subito immediatamente una perdita pari a oltre il 20% del valore delle sue azioni).
Come è potuto succedere? Si saranno chiesti milioni di automobilisti in tutto il mondo. E se lo è domandato anche il governo di Berlino, ben consapevole che il marchio VW è l’alfiere dell’industria tedesca, il simbolo di un gruppo globale dell’auto che, stando ai dati del secondo trimestre 2015, è il primo al mondo per le vendite. Non c’è dubbio che si attendono spiegazioni da Wolfsburg e il più rapidamente possibile.
Per giunta, la bomba è scoppiata in uno dei passaggi più delicati della storia aziendale della VW. È vero, infatti, che oggi il gruppo tedesco occupa la posizione di testa fra i produttori d’auto, davanti alla giapponese Toyota e all’americana General Motors, sebbene con un vantaggio numerico non troppo consistente (tutti e tre stanno intorno alla soglia dei 10 milioni di vetture). Ma la sua redditività è in calo e anche la posizione di mercato è insidiata dalla caduta sia del mercato cinese sia di quello brasiliano. A luglio, le vendite sono scese più del 3,5% e si è già calcolato che a fine anno la contrazione potrebbe essere del 5%.
Ma VW ha guai anche di altra natura. In primavera il suo vertice è stato squassato da un inusitato scontro di potere. L’autorevolissimo presidente del gruppo, Ferdinand Piëch, ha ingaggiato una lotta all’ultimo sangue con l’amministratore delegato, Martin Winterkorn, allo scopo di estrometterlo. Piëch voleva fare di VW, in un certo senso, la summa del sistema dell’auto, incorporando entro il suo perimetro aziendale tutti i marchi che potessero rendere sempre più forte e inattaccabile la sua gamma di offerta. È stato lui, per esempio, a volere che Audi acquisisse la Ducati e sarebbe stato pronto a comprare anche l’Alfa-Romeo, se Marchionne avesse ceduto un marchio che Fca vuole invece rilanciare.
La bulimia industriale di Piëch stava mettendo a rischio l’equilibrio del gruppo, in un momento in cui, secondo Winterkorn, occorreva impegnarsi in un’opera di razionalizzazione della struttura aziendale, evitando di ampliarla ulteriormente. Alla fine, quest’orientamento più saggio ha finito con l’avere la meglio e chi se ne è dovuto andare è stato il vecchio patriarca dell’auto, che non ha più trovato l’appoggio nemmeno delle istituzioni e dei sindacati (grazie alla cogestione Ig-Metall, il maggiore sindacato industriale del mondo, è una vera colonna portante dell’ordinamento d’impresa).
In questa cornice va collocata anche la sconsiderata politica di conquista del mercato nordamericano, che ha condotto al disastro di ieri. Negli Stati Uniti, la Volkswagen voleva raddoppiare il volume delle vendite, oggi non proprio brillanti, entro il 2018. Questa rincorsa forsennata degli obiettivi deve aver provocato il raggiro tecnologico che è stato rivelato ieri.
L’ansia da primato può giocare scherzi pericolosissimi. Quando la Toyota anni fa si vide prossima a sorpassare la General Motors, prima casa produttrice dalla fine degli anni Venti in poi, abdicò al suo modello produttivo centrato sulla ricerca di qualità che l’aveva sempre contraddistinta. E pagò carissimo, anche sul piano dei conti, quello sforzo che l’aveva fatta uscire dai suoi paradigmi. Ora la casa giapponese ha imparato la lezione: quando sono uscite le cifre che le consegnavano temporaneamente la supremazia nelle vendite dopo il primo trimestre 2015, ha emesso un comunicato in cui specificava che non le importava di essere la prima in classifica, ma di fare buone auto che si vendevano ovun-que.
È una lezione che non va dimenticata nemmeno a Detroit. Se davvero Marchionne l’anno prossimo lancerà un’Opa su General Motors, dalla fusione con FCA potrebbe nascere un gruppo da 15 milioni di vetture all’anno. Un gigante come non se ne sono mai visti nella storia dell’industria. Per fortuna, Marchionne si è posto come obiettivo fondamentale non il primato in quanto tale, ma un sistema capace di contenere e riequilibrare i costi degli investimenti.
Tratto da Il Mulino
[Una precedente versione di questo articolo è apparsa sulle pagine de «Il Mattino», il 22 settembre 2015]