di Aldo Bonomi –
Nel pieno della crisi, una fabbrica antica, con una storia complessa, piena di conflitti riguardanti spesso la salute dei lavoratori, rinasce nel nome dell’innovazione tecnologica, con la collaborazione degli enti locali e dell’Università. Produrrà pneumatici ecologici e “intelligenti”, che interagiscono con la guida e il controllo del veicolo. Un modello e una speranza: Un esempio che cambiare si può.
Si è scheggiato il diamante del lavoro. Un tempo bastava la fabbrica, l’inchiesta operaia per fare racconto. Oggi devi andare per lavori servili, badanti e migranti. Per fabbrichette di subfornitori che sembrano nuovi servi della gleba che quando i moderni “feudatari”, siano essi lo stato insolvente o il committente che si fa forza della sua forza, non pagano, si tolgono la vita non sapendo esercitare il conflitto che verso di sé. Nelle piattaforme produttive delle medie imprese, delle imprese a rete e nei distretti evoluti dove la classe operaia si è fatta coriandoli sul territorio. Poi c’è quel rompicapo che è il bacino dei lavoratori terziari dei servizi, metà partite iva del terziario riflessivo che ce l’ha fatta e metà che sfangano la vita nell’infelicità della flessibilità senza fine. La parola pesante lavoro, così scheggiata e frammentata, leggera nel suo essere debole di rappresentanza e di racconto, è volata nel cielo della politica e nelle lettere della banca centrale come variabile non secondaria della nuova parola pesante: lo spread. Meraviglia e fa sperare che sia una inversione di tendenza, essere invitato a commentare e a vedere uno spettacolo teatrale al Piccolo di Milano dal titolo antico: “Settimo, la Fabbrica e il Lavoro”.
Settimo torinese, periferia nord est di Torino nel 1951 contava 11mila abitanti, venti anni dopo all’apice del fordismo erano 43mila. Oggi sfiora i 50mila. Una residenzialità mista di ceti popolari e classi medie con cui Settimo ha attraversato il ‘900 e la sua crisi. Pur costituendo, dopo Mirafiori, il secondo polo industriale di Torino, il ciclo dell’auto ha interessato marginalmente questo centro. Fiat è qui soprattutto il nome dell’omonimo villaggio edificato nei primi anni 60 per dare alloggio agli immigrati che venivano da Sud. Case “rosso scuro”, edilizia popolare, il corso titolato al Senatore Giovanni Agnelli. Il fordismo qui è arrivato con l’industria siderurgica, le fonderie Cravetto e le acciaierie Lucchini, chiuse definitivamente nel 2000. È stato polo della chimica, con gli stabilimenti della Schiapparelli e della Siva Vernici, immortalata nella Chiave a stella di Primo Levi.
Vi sono resti dell’industria dell’abbigliamento che aveva a Settimo un sito del gruppo finanziario tessile. Sopravvivono le confezioni di Matelica, partecipate da Armani e da Zegna. Dal 1965 Settimo è anche lo stabilimento Lavazza, oggi la maggior torrefazione d’Europa. E capitalizzando le competenze artigianali nella lavorazione dell’avorio e dell’arabica, a Settimo si è sviluppata l’industria della stilografica con marchi come Aurora e Universal. Vi sono anche embrioni di nuova industria, con l’apertura del Centro di Ricerche e dello Stabilimento della Sparco (caschi, tute ignifughe e abbigliamento per piloti).
La fabbrica messa in scena al Piccolo è la più importante industria di Settimo: la Pirelli. Dagli anni cinquanta lo stabilimento Pirelli di via Torino (progettato da Giuseppe Valtolina, padre con Giò Ponti del Pirellone) a cui si aggiungerà il polo ex Ceat di Via Brescia, il gruppo milanese non ha mai abbandonato il territorio. Storia complessa, piena di conflitti riguardanti spesso la salute dei lavoratori. Lo stato di obsolescenza degli impianti poteva preludere a un nuovo caso di deindustrializzazione e di speculazione immobiliare. Non è andata così. Di questo va dato atto ai protagonisti dell’accordo finalizzato allo sviluppo del nuovo polo industriale sottoscritto nel 2006 da Regione, Provincia, Comune, Politecnico di Torino e Gruppo Pirelli. Le attività dell’azienda saranno accordate nel nuovo polo di Via Brescia, stabilimento all’avanguardia con tecnologie di nuova generazione, produzione di pneumatici ecologici, e “intelligenti” che interagiscono con la guida e il controllo del veicolo. A regime sono previsti 3,5 milioni di pneumatici l’anno. A Renzo Piano sono stati affidati il progetto architettonico e artistico della “spina”, il corpo centrale che ospiterà i servizi per i dipendenti, le opere paesaggistiche di viabilità interna e di illuminazione. Il progetto è stato condiviso, certo con il territorio, ma anche con tutte le organizzazioni sindacali. Raccontato il territorio e la fabbrica riappare, vivaddio, il racconto del lavoro operaio. Sarà bene ricordare che saranno 1.200 posti di lavoro a tempo indeterminato. Un buon lavoro in tempi di crisi, di delocalizzazione. La giovane regista Serena Sinigaglia ha raccontato della sua angoscia nel mettere in scena il lavoro operaio carsicamente riapparso dagli inferi dell’invisibilità. È stata aiutata dalla Fondazione Pirelli che, segno dei tempi, ha commissionato e realizzato lei un’inchiesta con interviste in profondità agli operai in transizione verso la nuova fabbrica e il nuovo lavoro. Le parole e le cose dello spettacolo sono prese letteralmente dai racconti operai. Giocate sul crinale di un giovane border-line al suo primo giorno in fabbrica, non per scelta ma per necessità, dopo aver fatto lo sfigato nell’iper flessibilità del tempo senza futuro, a confronto con i racconti dell’appartenenza di classe che non era certo l’isola felice con i suoi ritmi e le lotte per cambiare. La fabbrica appare ed è raccontata più isola felice oggi con le sue innovazioni. Ma ciò che resta, come nostalgia per quelli della lunga deriva del fordismo, e come solitudine per il giovane sfigato, è l’indifferenza per il lavoro operaio. Apprezzato solo dai migranti che raccontano il lavoro in fabbrica come un luogo dove hanno trovato cittadinanza e diritti. Dentro le mura, ovviamente. Per gli immigrati, per gli anziani e per il giovane operaio il problema sociale è fuori.
Da Il Sole 24 Ore, Microcosmi, 12 febbraio 2012