di Lapo Berti –
Siamo a una di quelle svolte nella storia in cui molti, per non dire tutti, avvertono che qualcosa si è rotto nel meccanismo che per tanto tempo ci ha consentito di abitare il nostro mondo godendo di un costante miglioramento delle nostre condizioni di vita. Il mito del progresso, con la sua apparentemente infinita capacità di attrarre consenso e di rinnovarsi, si è infranto.
Cominciamo a vivere fra i detriti di questa rottura, senza che ancora ne percepiamo tutta la gravità e ineluttabilità. Qualcuno di noi pensa ancora che, dopo tutto, anche questa passerà e si riprenderà il cammino inarrestabile del progresso. Qualcuno avrà perso, qualcun altro avrà guadagnato, come sempre.
La svolta che stiamo vivendo è invece inedita. Lo è per le dimensioni, perché coinvolge il mondo intero e si fa percepire, con maggiore o minore intensità, in tutti i paesi. La crisi finanziaria prima e la recessione economica ora non sono i fenomeni consueti, per quanto rovinosi, che da sempre accompagnano l’evoluzione del capitalismo e ne scandiscono la storia. Sono i sintomi della fine di un ciclo storico, dell’esaurimento di un modello di organizzazione della vita sociale e della sua riproduzione. Se li sappiamo cogliere, se li sappiamo interpretare, possiamo aprire una fase nuova in cui far nascere, dall’interazione di tutti e con il coinvolgimento del maggior numero di persone, un contesto sociale, economico e politico in cui ritrovare il senso delle nostre vite, la capacità e il piacere di stare insieme fra sconosciuti, le regole della democrazia. Se lasciamo passare l’occasione, non avremo certo la fine del mondo, che non siamo ancora in condizione di decretare, ma, certo, il mondo in cui viviamo continuerà a deteriorarsi e le nostre vite a desertificarsi. E’ in gioco la qualità della vita di tutti.
I modelli economici e sociali non si cambiano facilmente, checché ne dicano i politici di mestiere più o meno interessati a vendere la loro ricetta, ma le persone possono, anche singolarmente, cominciare a cambiare i modi della loro interazione, a cambiare le cose che fanno e i modi in cui le fanno, a cambiare le domande che pongono al mondo e ai loro simili. E’ da quest’interazione che nascono i veri cambiamenti, quelli che vanno in profondità, al cuore delle cose. Quello che serve prima di tutto, dunque, è un cambiamento culturale, un mutamento nei comportamenti e negli atteggiamenti delle persone, che dia spazio a nuove risposte, all’esplorazione di modi inusitati e inesplorati di fare le cose.
La politica è, nella sua versione migliore, il luogo in cui le persone che convivono in un determinato spazio collocano i loro sogni, le loro aspettative, i loro progetti di vita, è il luogo a cui rivolgono le domande a cui vorrebbero risposte per orientare le loro vite e costruire la loro felicità. La politica è il luogo che raccoglie e mette in scena l’immaginario sociale che è il frutto, la creazione spontanea di un’infinità di pensieri e di parole che riempiono i flussi della nostra vita quotidiana. E’ nel crogiolo della politica, quando questa mantiene fede alla sua missione, che si forgiano i contorni del presente e si delineano quelli del futuro. La politica, naturalmente, ha elaborato tecniche, procedure, per governare tutto ciò e per tradurlo in scelte concrete, materiali, in pratiche che ci coinvolgono e condizionano tutti, anche quando non ce ne accorgiamo. Ma il senso, la legittimazione della politica stanno in quella proiezione collettiva di senso che abbiamo appena descritto e reggono finché vive quel luogo che la rappresenta.
Quando la politica viene meno, in maniera evidente, irreversibile e irrimediabile, al compito di dare espressione alle fantasie degli uomini alla ricerca della loro felicità terrena, questo è il segno che è tempo di cambiare. Quando questo avviene, come oggi è sotto gli occhi di tutti, non solo nel nostro disgraziato paese, ma anche in Europa, anche in America, dove i politici sembrano aver perso il bandolo della matassa e si avvitano su caroselli di parole che non hanno presa sulle cose, che non sono in grado di guidare i fatti. Anche questo è un segno che siamo a una svolta che non si può evitare.
La seconda modernità, in cui abbiamo vissuto piuttosto confortevolmente fino all’altro ieri e che era ci sta stritolando nelle spire della sua crisi, ci consegna una manciata di problemi cui dobbiamo assolutamente tentare di dare una risposta, perché dalle risposte che sapremo dare e mettere in pratica dipende il futuro nostro e dei nostri figli.
Il primo tema cruciale è quello del potere economico. La crisi finanziaria del 2008 ci ha mostrato, con tutta evidenza, che per troppo tempo abbiamo lasciato che il potere economico crescesse a dismisura, al di fuori di ogni regola e anche di ogni senso pratico. Ha mostrato, cosa ancora più grave, che le istituzioni democratiche, così come le abbiamo concepite e praticate, non hanno gli strumenti per governare e controllare la formazione di poteri economici esorbitanti, che danno luogo a compensi e a ricchezze inaudite e inaccettabili da qualunque collettività che debba condividere il destino di tutti coloro che ne fanno parte. Le nostre costituzioni regolano il potere legislativo, quello esecutivo, quello giudiziario, ma hanno trascurato quello economico. Occorre porre rimedio a questa lacuna devastante.
Il secondo tema, strettamente intrecciato al primo, è quello della disuguaglianza economica. Anche qui, la politica e le istituzioni della democrazia si sono dimostrate insufficienti e incapaci di far sì che le disuguaglianze economiche, inevitabili in un sistema economico capitalistico, diventassero intollerabili e generassero condizioni di disuguaglianza e di sofferenza sociale che sono al di fuori del patto che tiene insieme le società democratiche.
Il terzo tema è quello delle dimensioni abnormi che il debito pubblico ha raggiunto in molti paesi senza che nulla e nessuno fosse in grado di porvi un argine, ma, soprattutto, senza che nessuno ne comprendesse il significato e si ponesse il problema di quali debbano essere i limiti che l’indebitamento dei governi può raggiungere e delle caratteristiche che deve avere per essere di sostegno all’economia e non di peso ai cittadini. L’irresponsabilità politica, e non solo, degli uomini di governo nelle cui mani è posto il potere di creare debito pubblico è parte del problema e richiede di essere affrontata.
Il quarto e ultimo dei temi cruciali, il più generale e comprensivo, è quello del ruolo che la mercificazione ha assunto nelle nostre società. Era prevedibile, e per molto tempo è apparso addirittura ovvio e necessario, che, in una società in cui una quota crescente dei beni e servizi in cui s’incarna il nostro benessere sono resi disponibili solo se vi è la prospettiva di un profitto ovvero se possono assumere la forma di una merce, non si ponesse alcun limite al novero delle cose che possono essere sottoposte a questo regime. E così è stato. Un po’ alla volta si è trasformato in merce il lavoro, l’ambiente, il corpo, la cultura, la vita privata, praticamente tutto ciò che compone la nostra civiltà millenaria. Oggi cominciamo a renderci conto che questo gigantesco sovvertimento dell’ordine sociale in cui per millenni si è svolta la vita delle civiltà ha progressivamente svuotato di senso le nostre vite, gli ha sottratto quella valenza culturale che avevamo impiegato millenni per costruire. Non è sensato pensare che quel sovvertimento possa essere ribaltato. Certo va governato, preso in mano. Occorre che si apra una grande discussione collettiva capace di produrre un cambiamento culturale che riporti sotto controllo dell’umanità nel suo insieme il mondo impazzito delle merci.