Cambiare le regole del gioco per il benessere di tutti

di Joseph Stiglitz

Il sistema economico è governato, come qualsiasi gioco, da regole, che possono favorire alcuni giocatori a spese di altri. In questi ultimi trent’anni le politiche a favore del libero mercato hanno creato un sistema di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei guadagni. Così i “regali” fatti alle grandi imprese sono stati pagati dai cittadini in vario modo (tasse più alte e prezzi in aumento). Le banche sono state più protette e più garantite nella restituzione dei debiti contratti dai cittadini e senza alcuno scrupolo morale hanno imposto interessi oltraggiosi con la complicità o il tacito assenso dei regolatori del mercato. A questo si aggiunga la cattiva gestione dei capitali e del rischio da parte delle banche, che ha favorito l’innesco di una crisi finanziaria di notevoli proporzioni. Nonostante tutto, però, le regole del gioco non sono cambiate e ai cittadini è chiesto di pagarne le conseguenze, peggiorando le proprie condizioni di vita e consentendo a chi ha sbagliato di continuare a giocare ancora nello stesso modo.

Il sistema economico è governato da un insieme di regole. Ogni insieme di regole favorisce alcuni giocatori alle spese di altri. E le regole influiscono sul funzionamento dell’intero sistema. Negli ultimi trent’anni, abbiamo cambiato molte regole in modo frammentario, sotto l’influenza di un’ideologia per la quale le regole migliori erano quelle che interferivano il meno possibile con i mercati. Questo, almeno, era ciò che sostenevano i loro difensori. Ma, nella pratica, il loro programma è stato ben diverso. La deregolamentazione, infatti, non ha portato a meno, ma a più interventi sul mercato: c’è stata una minore interferenza negli anni precedenti alla crisi, ma molti più interventi nel periodo successivo. Tutto ciò era prevedibile ed era stato previsto. Ciò che i sostenitori del cosiddetto “libero mercato” stavano creando era un sistema che ho chiamato un “surrogato del capitalismo”, il cui elemento essenziale è la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei guadagni. Questo “surrogato del capitalismo” è strettamente legato al capitalismo delle grandi imprese promosso da Bush e da Reagan. In alcuni casi non c’è trasparenza su chi finisce per pagare i regali fatti alle imprese: alla fine, naturalmente, a pagare sono i cittadini – come consumatori o contribuenti – spesso in modi che non sono facili da riconoscere, per esempio, attraverso la tassazione o l’aumento dei prezzi dei beni acquistati.

Alcune delle modifiche alla legislazione durante gli anni di Bush hanno colpito le persone più vulnerabili. Le norme che hanno reso la vita più difficile alle persone più indebitate – insieme alla mancanza di limiti ai tassi da usura che le banche potevano applicare – hanno reintrodotto negli Stati Uniti vincoli di servitù. Questo ha permesso alle banche di essere più avventate nel concedere prestiti, sapendo che esse avevano una maggiore possibilità di vederseli restituiti, con interessi, non importa quanto oltraggioso fosse il contratto. Si poteva sperare che scrupoli morali potessero prevenire il verificarsi di queste diffuse pratiche predatorie, ma l’avidità ha trionfato; con i regolatori del mercato che andavano a braccetto con le banche o erano accecati dall’ideologia del libero mercato, non c’è stato alcun controllo su tali pratiche abusive. Le banche avevano scoperto che c’era del denaro alla base della piramide sociale e hanno creato tecniche, e un sistema legale, per farlo muovere verso l’alto. Nessuno, guardando a ciò che è accaduto, direbbe che queste transazioni “volontarie” ma spesso ingannevoli hanno accresciuto il benessere di quelli che stavano alla base della piramide. Alla fine, a farne le spese è stato tutto il sistema mondiale.

Quattro anni dopo l’esplosione della bolla speculativa americana sul mercato mobiliare, che ha trascinato nel baratro l’economia globale, il prezzo di questi misfatti non è ancora stato pagato del tutto. La produzione rimane ben al di sotto del suo potenziale in molti paesi industrializzati, con perdite misurate nell’ordine di migliaia di miliardi di dollari. A queste vanno sommate le perdite dovute alla cattiva allocazione del capitale da parte del settore finanziario e alla cattiva gestione del rischio prima della crisi. A parte i periodi di guerra, nessun governo è stato mai responsabile di perdite cosi ingenti come quelle causate dalla condotta del settore finanziario. E tuttavia, quattro anni dopo, le regole del gioco, le regolamentazioni che il governo impone alle banche, devono ancora essere cambiate. Gli incentivi al rischio e alla speculazione di breve periodo rimangono; il problema dell’azzardo morale posto dalle banche “troppo grandi per fallire” si è aggravato, non si è ridotto. In alcune aree ci sono stati miglioramenti, ma anche in questi casi le leggi rimangono piene di esenzioni ed eccezioni, basate non su ragioni economiche ma sul bruto potere delle lobby.

Ogni società si fonda su un senso di coesione sociale e di fiducia, sul senso di equità. Non dovremmo sottovalutare le conseguenze che la crisi – e il modo in cui è stata affrontata – hanno avuto nello spezzare il contratto sociale e tutti quegli elementi che garantiscono il corretto funzionamento di una società. Che i banchieri abbiano perso la fiducia dei loro clienti è ovvio; una banca che aveva attuato pratiche ingannevoli ha semplicemente sostenuto che prendere precauzioni era responsabilità di altri; le banche di cui ci si possa fidare appartengono chiaramente al passato. La disuguaglianza viene di solito giustificata con il fatto che chi è pagato molto ha reso un maggiore contributo alla società, di cui tutti beneficiamo. Ma quando chi paga le tasse finanzia i bonus dell’ordine di milioni di dollari che vanno ai banchieri – che sono stati responsabili di perdite dell’ordine di miliardi di dollari per le loro aziende, e dell’ordine di migliaia di miliardi per la società – tutto questo non ha più alcun senso. Quando un esponente dell’amministrazione Obama ha annunciato il “doppio standard” – i lavoratori dovevano riscrivere i loro contratti per rendere le imprese dell’auto più competitive, ma i contratti dei banchieri erano sacrosanti e non potevano essere rivisti – anche questo ha mostrato che il sistema è fondamentalmente ingiusto, e che il governo, piuttosto che correggere le iniquità, vuole mantenerle.

Quel che è peggio, ai cittadini è stato chiesto di subire politiche di austerità, maggiore disoccupazione e tagli ai servizi pubblici per pagare i debiti provocati dal comportamento della finanza e in parte per proteggere gli azionisti e i possessori di titoli delle banche.

Un’economia non può funzionare senza la fiducia, e quando le banche insistono a voler tornare ai comportamenti di prima della crisi i cittadini sono giustamente scettici. La fiducia non tornerà fino a quando non saranno introdotte regole buone e rigide, fino a quando non verrà ristabilito un nuovo senso di equilibrio. Il settore finanziario dovrebbe servire l’economia – non viceversa. Abbiamo confuso i fini con i mezzi.

Oggi abbiamo le stesse risorse – in termini di capitale umano e fisico – che avevamo prima della crisi. Non c’è ragione per cui dovremmo aggiungere agli errori che ha fatto la finanza nella cattiva allocazione del capitale prima della crisi, l’ulteriore errore di sottoutilizzare le risorse della società dopo la crisi. La tecnologia moderna ha la capacità di accrescere il benessere di tutti i cittadini – e tuttavia in molti paesi – Stati Uniti inclusi – abbiamo creato un’economia in cui la maggior parte dei cittadini peggiora la propria condizione anno dopo anno. Possiamo anche vantarci dell’aumento del Pil, ma cosa c’è di buono se quest’incremento non si trasforma in benefici per i comuni cittadini? Se la crescita economica non porta a più ampi miglioramenti del benessere? O se questi incrementi sono effimeri e non sostenibili sia dal punto di vista economico che ambientale?

Le sfide che i governi, le nostre società e le nostre economie devono affrontare sono enormi. Forse non siamo più sull’orlo del baratro in cui eravamo nell’autunno del 2008, ma non siamo ancora fuori dai guai. Anche se profitti, bonus e crescita sono tornati, non potremo cantare vittoria fino a quando la disoccupazione non sarà tornata ai livelli di prima della crisi, e fino a quando i redditi reali dei lavoratori non saranno aumentati e non avranno recuperato le perdite subite in questi anni. Possiamo farcela – ma solo se sapremo correggere gli errori del passato, cambiare direzione e tenere bene a mente quali sono i veri obiettivi per i quali dobbiamo batterci.

[tratto da: www.sbilanciamoci.info]