di Lapo Berti –
La drammaticità della crisi economica attuale in Italia è il prodotto di una crisi globale che è andata a sommarsi a un declino economico ormai in atto da decenni. Se non s’interrompe quel declino, anche l’uscita dalla crisi sarà solo precaria, ammesso che ci sia. Ma il declino è frutto di un ingessamento che ha radici antiche e che si alimenta di rendite, di privilegi ingiustificati, di parassitismo. Occorre spezzare questa morsa. Liberalizzare i mercati significa aprire l’economia e la società a dinamiche nuove e trasparenti, mettere in campo energie nuove, giovani, spazzare la cattiva politica che si fonda sull’intermediazione delle risorse pubbliche. Ma liberalizzare ha senso solo se si liberalizza, una volta per tutte, l’intero sistema.
Un mercato chiuso alla concorrenza assomiglia un po’ a una torta che un gruppo di persone hanno deciso, sulla base di norme, regole scritte e non scritte, accordi, consuetudini, di dividersi fra di loro secondo certe proporzioni. Di volta in volta, la torta viene riprodotta e suddivisa. Nessuno è indotto a introdurre cambiamenti o innovazioni, neanche per provare a ingrandire la torta. Quello che conta è impedire che arrivi qualche nuovo soggetto che vuole partecipare alla spartizione. Ci si organizzerà, quindi, per evitare che questo avvenga. Si cercherà di ottenere una legge che sancisca la spartizione. Si faranno accordi, sotto qualsiasi forma, per renderla immodificabile. Se è il caso, si metteranno in scena proteste pubbliche più o meno virulente, tali, comunque, da condizionare la prospettiva breve, e miope, dei partiti.
Se il mercato viene aperto alla concorrenza, le cose cambiano di parecchio. Tutti possono concorrere alla spartizione della torta. I nuovi aspiranti metteranno in campo strategie innovative, inventeranno nuove soluzioni, per aggiudicarsi una parte della torta, creando nuove opportunità e nuovi vantaggi per i clienti e consumatori che, con i loro acquisti, determinano la formazione della torta. Il risultato è che tutti coloro che si erano abituati a mangiarsi, anno dopo anno, la loro fetta di torta, si vedono improvvisamente posti di fronte alla possibilità che qualche “estraneo” gliela sottragga o, quanto meno, lo costringa a ridurla, riducendo o azzerando il beneficio, o, meglio, la rendita, assicurata dall’eliminazione della concorrenza. E’ chiaro che, posti di fronte a questa prospettiva, molti saliranno sulle barricate, ma è altrettanto chiaro che, se si vuole arrecare un beneficio duraturo ai consumatori e all’economia nel suo complesso, quelle barricate andranno smantellate. Fra quelli che erano abituati a spartirsi la torta senza colpo ferire, in genere con la semplice conferma di una fedeltà politica, alcuni non ce la faranno e saranno costretti ad andarsene, altri tenteranno di adeguarsi alla nuova situazione, innovando o abbassando i prezzi e migliorando i prodotti e i servizi. Di nuovo, con un vantaggio per i clienti e i consumatori e con una maggiore efficienza per l’economia nel suo complesso.
L’Italia ha un’economia formata da tante torte, piccole e grandi, che da tempo immemorabile e, in genere, con la connivenza dello stato, sono appannaggio di gruppi fissi di soggetti che si trasmettono il “diritto” alla spartizione della torta da una generazione all’altra. Il risultato è un’inefficienza complessiva del sistema che produce costi ingiustificati per i consumatori e, specialmente se si tratta di servizi, anche per le imprese. E’ un sistema in cui prevale la rendita, assicurata da norme che singoli gruppi d’interesse contrattano con il potere politico in un regime di rapporti opachi in cui spesso alligna la corruzione. Si calcola che, in questo modo, il settore dei servizi che sono erogati al riparo dalla concorrenza porti nelle tasche dei produttori profitti quasi doppi rispetto al resto dell’area dell’euro.
Tutto ciò ha ragioni storiche profonde, che hanno a che vedere con il modo in cui l’Italia, fin dalla costituzione dello stato unitario, ha imboccato la via dell’industrializzazione. Un’insufficiente disponibilità di capitale accumulato, rispetto alle nazioni concorrenti come l’Inghilterra, la Francia, la Germania, ha imposto il predominio delle banche nel finanziamento delle imprese, riducendo a un ruolo secondario il mercato borsistico. La guida del processo d’industrializzazione è irrimediabilmente finita nelle mani dello stato, attribuendo ai governi un potere da cui ancora non si sono separati. Si è stabilito allora quell’intreccio perverso fra governo, forze politiche di maggioranza, sistema bancario e imprese che ha condizionato in profondità il modello capitalistico italiano e che solo negli ultimi anni ha cominciato a subire smottamenti, facendo intravedere la possibilità di un cambiamento di sistema. Le imprese si sono abituate a ricercare, anche con mezzi illeciti, la protezione dello stato piuttosto che il confronto con il mercato. Si sono moltiplicate le lobby, che hanno trasformato il parlamento e, quindi, la politica in un mercato delle vacche sempre meno trasparente e sempre più corrotto. Le persone si sono abituate a pensare che per trovare un lavoro, per fare carriera, era meglio rinunciare a far valere le proprie capacità per porsi al riparo di qualche corporazione, economica, politica, sindacale che fosse. Ne sono risultate indebolite tutte le spinte che normalmente rendono dinamico un contesto sociale, dalla premiazione del merito alla ricerca del successo, dalla voglia di innovare all’assunzione del rischio. Ne è derivato il desolante e stagnante panorama sociale che abbiamo di fronte.
Un programma di liberalizzazioni come quello annunciato dal presidente Monti rappresenta, in sé, una svolta epocale. Se venisse attuato e, soprattutto, se avesse la necessaria ampiezza e completezza, costituirebbe, per l’Italia, un cambiamento di paradigma. Cambierebbero le regole del gioco e, quindi, i comportamenti degli attori economici, imprese, lavoratori, consumatori. Cambierebbero i valori di riferimento. Cambierebbero le aggregazioni politiche, verrebbe ridisegnata la mappa degli schieramenti politici. Una rivoluzione, in pratica, quella rivoluzione liberale di cui, già quasi un secolo fa, parlava, inascoltato, Piero Gobetti, prefigurando una convergenza di interessi, nel nome del liberalismo, fra tutti coloro che volevano porre fine a un’economia parassitaria e a una politica corrotta. Certo, le liberalizzazioni non sono la soluzione di tutti i problemi, ma sono la premessa per voltare pagina, per provare a sottrarre l’Italia al declino cui è attualmente condannata, per tentare di dare vita a nuovi modelli economici e sociali. A patto, naturalmente, che non si guardi in faccia a nessuno e si agisca rapidamente e contemporaneamente in tutti i settori, con una logica di sistema. Il governo Monti, relativamente al riparo dai ricatti della piccola politica, può farlo.