di Salvatore Aprea –
Secondo i dati raccolti a partire dal 1945 dall’Heidelberg Institute for International Conflict Research (HIIK), il 2011 è stato l’anno con il maggior numero di conflitti mai registrato dalla fine della seconda guerra mondiale. I numeri parlano da soli: in totale sono 388 le situazioni di conflitto registrate nel 2011, delle quali 20 sono guerre vere e proprie che coinvolgono 14 nazioni. Alcuni paesi presentano più fronti di guerra e il caso più eclatante è rappresentato dal Sudan, dove ne sono in corso quattro. Sei guerre già registrate nel 2010 hanno conservato nel 2011 il medesimo livello di gravità: Sudan, Somalia, Iraq, Afghanistan, Pakistan, e Messico. Altre 14 situazioni di conflitto sono esplose ex novo o sfociate in guerre aperte.
Materie prime e finanza, combinazione fatale
Le cause sono numerose, come risulta dai grafici del “Conflict Barometer Pressekit 2011″ dell’HIIK riportati di seguito, ma l’accaparramento delle risorse ha sicuramente un ruolo di rilievo. Certo, nulla di nuovo sotto il sole: andando avanti e indietro nella storia, le crisi armate per il controllo delle risorse non sono mai mancate. Basti pensare alla crisi di Suez nel 1956, per il controllo del canale dal quale transitavano le petroliere dal Golfo Persico, o al colpo di Stato in Cile nel 1973, che ebbe per scintilla la nazionalizzazione delle miniere di rame. Ciò che spicca, tuttavia, è la vastità assunta dal fenomeno.
Dalla ricerca “Mercati di guerra” – promossa da Caritas Italiana, Famiglia Cristiana e Il Regno e recentemente presentata a Roma – il ruolo centrale della dimensione economico-finanziaria nei conflitti politici e armati, sia tra stati che all’interno dei singoli paesi, emerge chiaramente. Afferma il rapporto: “L’assetto economico è sempre stato decisivo nel contribuire a determinare il grado di conflittualità delle relazioni internazionali, sia per via dei conflitti che riguardano l’accaparramento di risorse strategiche (petrolio, acqua, terra) sia per le acute tensioni che si possono generare nelle relazioni tra creditori e debitori, all’interno del mercato internazionale. Centrale appare a riguardo il tema delle risorse naturali ed energetiche. Negli ultimi anni, la disponibilità di risorse è divenuto il fattore scatenante di nuovi conflitti internazionali e interni. I primi due beni primari ad essere colpiti da questi fattori di crisi sono acqua e cibo”. Le risorse idriche condivise attraverso bacini idrici internazionali (nel mondo sono 263) coinvolgono, infatti, 145 nazioni. Negli ultimi 50 anni, la forzata spartizione dei bacini ha causato 37 conflitti violenti, ma per il rapporto “oltre 50 paesi nei prossimi anni potrebbero entrare in dispute violente sulla gestione di laghi, fiumi, dighe e acque sotterranee”. Quanto al cibo, nell’ultimo quinquennio il suo prezzo è sostanzialmente raddoppiato. L’indice del prezzo mondiale del cibo, rivela la ricerca, è cresciuto gradualmente da 107 nel 1990 fino a toccare la vetta di 209.3 nel febbraio 2011, attestandosi nel febbraio 2012 al livello ancora molto alto di 195.2.
Sempre secondo il rapporto “Le conseguenze sui paesi a reddito basso e medio-basso delle evoluzioni dei prezzi sono state ovviamente negative. In particolare, la crisi alimentare esplosa nel 2008 e l’aumento del prezzo dei prodotti alimentari in tutto il mondo, hanno contribuito all’esplodere di vari conflitti, quali le primavere arabe e la guerra civile in Costa d’Avorio, e hanno provocato scontri e rivolte ad Haiti, in Camerun, Mauritania, Mozambico, Senegal, Uzbekistan, Yemen, Bolivia, Indonesia, Giordania, Cambogia, Cina, Vietnam, India e Pakistan”.
D’altro canto, anche le materie prime energetiche hanno subito incrementi di prezzo vistosi. L’ascesa del prezzo del greggio, iniziata nel 2002, ha raggiunto livelli che sono superiori a quelli – considerati eccezionali già allora – raggiunti con gli shock petroliferi della fine degli anni ’70. Oggi il prezzo reale (ovvero considerando l’effetto della svalutazione del dollaro) del petrolio è maggiore di quello raggiunto all’apice del secondo shock petrolifero, trent’anni fa, ed è due volte e mezzo superiore al livello di inizio millennio. Tra le cause degli aumenti di prezzo, la maggiore è l’esplosione della leva finanziaria del mercato delle commodities, ossia il ruolo giocato dagli speculatori e dai mercati finanziari mondiali. Basti pensare che negli ultimi dieci anni il volume d’affari sul mercato a futuri del petrolio è decuplicato, proprio a seguito degli interventi delle grandi istituzioni finanziarie.
L’argomento meriterebbe una trattazione a sé stante, ma in questo caso mi limiterò a rammentare le infelici iniziative delle autorità monetarie statunitensi degli ultimi anni. Nel novembre del 1999, Clinton ratificò il “Gramm-Leach-Bliley Act”, con cui veniva drasticamente limitato il potere di controllo su banche di investimento e istituti di credito ipotecario. La nuova legge abrogava così le disposizioni del “Glass-Steagall Act” del 1933, che aveva introdotto misure per contenere la speculazione da parte degli intermediari finanziari e i panici bancari come quelli del 1929. La norma del ’33 prevedeva la separazione tra attività bancaria tradizionale e investment banking per evitare che il fallimento dell’intermediario comportasse il fallimento della banca tradizionale, impedendo di fatto che l’economia reale fosse direttamente esposta alla minaccia di eventi negativi puramente finanziari. Come se non bastasse, un emendamento alla finanziaria del 2000, il “Commodity Futures Modernization Act”, deregolamentò la compravendita di derivati.
Guerra e democrazia
I conflitti, ovviamente, non dipendono solo da questioni economiche e finanziarie, ma sono anche molto legati alle condizioni politiche dei singoli paesi. Secondo il rapporto “…ci sono 43 paesi definiti fragili, le cui strutture istituzionali non possiedono la capacità e/o la volontà politica di provvedere alla riduzione della povertà, allo sviluppo e alla tutela della sicurezza e dei diritti umani delle popolazioni. In tali paesi vivono complessivamente circa 1,2 miliardi di persone”. Gli Stati fragili costituiscono l’area più vulnerabile del pianeta, sebbene negli ultimi dieci anni abbiano ricevuto circa il 30% degli aiuti internazionali allo sviluppo e circa il 90% dell’aiuto umanitario, per un totale di circa 40 miliardi di dollari annui. Tutto ciò però non ha prodotto maggiore stabilità politica e migliori condizioni di vita.
Le spese militari non soffrono la crisi economica
Chi non risente degli effetti negativi della crisi economico-finanziaria è la spesa militare mondiale. Secondo il “SIPRI Yearbook 2012″ – l’ultimo rapporto dell’autorevole Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) pubblicato lo scorso giugno – la spesa militare globale del 2011 è stimata in 1.738 miliardi di dollari e rappresenta il 2,5% del prodotto interno lordo complessivo, pari a circa 249 dollari a persona. Nonostante la crisi economico-finanziaria, è la cifra più alta dalla caduta del muro di Berlino, con un incremento dello 0,3% in termini reali rispetto all’anno precedente. Gli Stati Uniti rimangono in testa alla classifica con 711 miliardi di dollari, pari al 41% del totale mondiale.
Per inciso, il SIPRI la spesa militare del 2011 dell’Italia ha potuto solo stimarla, pari a circa 34,5 miliardi di dollari, affermando che “La spesa militare dell’Italia è meno che trasparente, nel senso che è distribuita tra i budget di diverse amministrazioni statali”. Il SIPRI, inoltre, ha aggiunto – come riportato anche in una interrogazione alla Camera del 7 agosto scorso – che “Le spese per le missioni militari all’estero sono approvate dal Parlamento italiano in un bilancio separato da quello del Ministero della Difesa. Oltre 1 miliardo di euro di forniture militari addizionali e per ricerca e sviluppo sono ogni anno finanziate dal Ministero dello Sviluppo Economico. Come per la Grecia, le cifre della NATO riguardo all’Italia per il 2011 non erano disponibili al momento della stesura del rapporto”. L’opacità della spesa militare italiana è stata messa in luce anche dal recente rapporto “Economia a mano armata” pubblicato dalla campagna Sbilanciamoci!, ma in questa sede gli aspetti che voglio evidenziare sono altri. La violenza estesa in tante aree trascurate del mondo ha portato il numero delle vittime civili a livelli intollerabili: le crisi umanitarie colpiscono oggi oltre 60 paesi; il numero dei disastri naturali in vent’anni è quasi raddoppiato e la malnutrizione flagella oltre un miliardo di persone. Circa 18 milioni di bambini sono costretti ogni anno a trasferirsi a causa dei conflitti armati; di questi due terzi sono sfollati nel proprio paese, mentre un terzo è costretto a riparare all’estero (Unhcr, 2010). “Occhio per occhio… e il mondo diventa cieco” affermava Gandhi. Quando decideremo di tenere gli occhi aperti?