La precarietà non scelta, ma subìta, l’impossibilità di programmare non solo la propria vita personale, ma anche quella professionale, la tua voglia di fare mortificata, la necessità di accettare il lavoro che ti capita, per quanto tu abbia un tuo progetto, un tuo disegno di crescita professionale, tutto questo finisce per distruggere il tuo sogno. La precarietà è un sistema logorante, che va a discapito della professionalità. Parla una neomamma ultraquarantenne, precaria per molti anni.
Questa volta per l’intervista mi reco io a casa di L.G., neomamma ultraquarantenne, finalmente assunta con contratto a tempo determinato in un’istituzione pubblica di Roma. Un’intervista “a domicilio”, per necessità, che si svolge sotto gli occhi incuriositi, e per niente spaventati, di due splendidi bimbi di quattro mesi. E’ insolita questa situazione, ma familiare e spontanea. Apprezzo ancora di più la disponibilità di L.G. e tra un biberon e l’altro, un cambio di pannolini e qualche sorriso ai piccoli riusciamo a conversare piacevolmente per oltre un’ora.
L.G. è sposata e da oltre dieci anni vive a Roma. Si è laureata in Lettere moderne e specializzata in nuove tecnologie applicate alle biblioteche. Nel tempo ha seguito svariati altri corsi per affinare l’expertise nel settore, anche uno di project management, che ha rappresentato la svolta della sua vita, ma paradossalmente poco o niente ha potuto lavorare nel settore delle biblioteche, anche se le sarebbe piaciuto.
Sono curiosa di sapere da quanto tempo è precaria e che tipi di lavoro ha fatto, mi risponde serenamente.
“Precaria? Lo sono da sempre. Da pochi mesi ho un contratto a tempo determinato con buone prospettive di stabilizzazione, ma di fatto precaria lo sono ancora, anche se ora finalmente mi sembra di avere un futuro. Il settore nel quale ho lavorato di più è stato proprio quello del project management applicato a varie attività: turismo, formazione, sociale. Ho lavorato soprattutto su progetti e “a progetto”.
Voglio cercare veramente di capire la sua condizione, così le chiedo che mi chiarisca meglio il significato di queste esperienze di lavoro per lei.
“I miei lavori duravano lo spazio di un progetto, che poteva oscillare da due mesi a tre anni, ma anche se il progetto era di tre anni, questo non significava che il mio incarico era della stessa durata. Tutto dipendeva dal momento nel quale venivo inserita nel progetto e dall’incarico che mi veniva assegnato, e quando si trattava di ruoli marginali magari lavoravo intensamente per alcuni mesi di seguito, e per altri, a volte anche per il doppio del tempo, mi ritrovavo a lavorare poco o nulla. Non c’era nessun tipo di regolarità.”
Capisco che in queste condizioni non c’era nessuna possibilità di organizzare e programmare la propria vita privata.
“Non è solo quello, c’è anche l’impossibilità di programmare la propria vita professionale. In sostanza la necessità di cogliere l’occasione, l’opportunità di lavoro non ti consente di seguire quello che ti piace, di costruire la tua scelta professionale. Mi sono ritrovata a pensare spesso che la flessibilità per me è stata sicuramente un’esperienza positiva. Cambiare lavoro mi ha arricchito molto indubbiamente, però mi sono resa conto che alla lunga questa situazione mi lasciava ferma. Rafforzava le mie competenze trasversali, che io spendevo in ogni tipo di lavoro, ma non mi consentiva di approfondire nulla. Alla fine chi ero professionalmente? Cosa ero? Esperto in formazione, turismo, ambito sociale? Ma cambiavo continuamente settore e non sempre nei progetti mi veniva affidato il ruolo di project manager, così anche nell’ambito del project management non avevo affinato un’expertise tale da potermi definire tale. Insomma dopo un pò non sai più chi sei.”
E’ inevitabile la mia domanda sulla sua attuale condizione di mamma, visto che sono scrutata con curiosità dalle sue creature.
“Io i bambini li ho avuti, quando ormai non me lo aspettavo più. Quando c’era stata una svolta professionale nella mia vita, ho scoperto di essere incinta, se fosse accaduto prima non so come avrei fatto. Lavoravo in quel momento per una importante società. Mi ero “conquistata” questo lavoro dopo aver superato diversi colloqui. Quando ho scoperto la mia maternità, ho pensato subito, questo lavoro me lo sono bruciato, perché in un modo o nell’altro avrebbero trovato la maniera di allontanarmi. Mentre ero in questa difficile situazione, mi è sembrato incredibile l’arrivo di tre proposte di assunzione da parte di tre istituzioni diverse, ai cui concorsi avevo partecipato e che avevo superato guadagnando l’idoneità. Mi sono trovata in seria difficoltà. Alla fine ho scelto la più gratificante delle tre proposte, anche se è la più precaria. Il mio contratto a tempo determinato scadrà tra tre anni, ma le prospettive di una trasformazione del contratto a tempo indeterminato appaiono decisamente buone.”
Cerco di capire cosa si agita nella mente di una persona che vive in condizione di precarietà lavorativa per così lungo tempo, anche se me lo posso immaginare, vorrei che lei mi confidasse le sue sensazioni e le sue riflessioni. L.G. non ha esitazioni e me ne parla con grande lucidità e serenità.
“Il precariato va a scapito della professionalità e questo non lo dico perché inseguo la stabilità. Anche la scelta che ho fatto in questo momento lo dimostra. Avevo l’opportunità di un lavoro a tempo indeterminato tra le tre offerte, ma ho preferito una realtà che mi sembrava più gratificante. La stabilità non mi ha mai interessato, perché secondo me bisogna cambiare lavoro, ma io sono per la flessibilità, non per la precarietà. In fondo sono due facce di una stessa medaglia, ma io vedo la precarietà in un’accezione negativa, perché viene utilizzata per indicare una condizione di instabilità lavorativa subìta, mentre la flessibilità dovrebbe poter essere scelta, offrendo a chi lo desidera l’opportunità di cambiare ambienti e lavoro con relativa facilità. Quando, invece, sei costretto ad accettare il lavoro che ti capita, per quanto tu abbia un tuo progetto, un tuo disegno di crescita professionale, questo distrugge il tuo sogno. E nel tempo questo sogno professionale svanisce perché non riesci a costruirlo, perché non hai nessuna garanzia di continuare il tuo lavoro, ti devi adeguare a quello che trovi.
La flessibilità deve essere sostenuta, non necessariamente con aiuti economici, bisognerebbe creare strutture efficienti, che io non ho trovato, e che favoriscano facilmente l’incontro della domanda e dell’offerta di lavoro, soprattutto a livelli più qualificati, ma questo presuppone, a mio avviso, anche un cambiamento profondo di mentalità sia nel datore di lavoro privato che in quello pubblico e che allo stato attuale rende quasi impossibile seguire la strada della salutare flessibilità. Non bisognerebbe assumere per raccomandazione. Solo in questo modo si potrebbe trasformare la precarietà in flessibilità. Noi viviamo in un sistema in cui il lavoratore viene assunto, se segnalato, a volte indipendentemente dalle sue capacità effettive. E questo nella più negativa delle ipotesi per convenienza in un sistema clientelare di scambio di favori, e nella situazione più positiva per pura e semplice diffidenza del datore di lavoro. Si preferisce assumere qualcuno che si conosce o che è conosciuto da persone di fiducia. Ecco perché inviare i curricula alle aziende e alle istituzioni pubbliche è del tutto inutile. Con ogni probabilità nessuno li leggerà e nessuno li prenderà in considerazione. In un contesto in cui funziona il passaparola, andare a proporti da sconosciuto è estremamente difficile. Io ho quasi sempre lavorato perché un progetto ne chiamava un altro, nel momento in cui questo circolo virtuoso si interrompe (e succede inevitabilmente), sei tu che ti devi attivare e proporti in un contesto nuovo, e ti ritrovi solo e impotente.”
E i sindacati? Suggerisco il ricorso al supporto di un soggetto che dovrebbe occuparsi dell’organizzazione del lavoro e della condizione dei lavoratori. Ricevo una risposta lapidaria.
“I sindacati non sono interessati ai precari, se non quando diventano una realtà che abbia una sua “consistenza”, per esempio i precari della Pubblica Amministrazione, ma quelli sono già dei lavoratori “a termine”, si avvicinano ad una condizione di stabilità. Rappresentano la fascia alta, l’élite del precariato, se così si può dire. Il singolo precario è solo.”
Le domando se almeno sotto il profilo economico ha ottenuto qualche gratificazione nella sua esperienza.
“Io, forse, sono stata fortunata, però, vedi, se lavori tantissimo per brevi periodi, anche le gratificazioni economiche che ricevi, non puoi utilizzarle adeguatamente, perché sai, per certo, che dopo un periodo di attività, ci sarà un periodo, di lunghezza imprecisata, di inattività e devi sempre contenerti e controllare le spese. Paradossalmente la stabilità è diventata la vera aspirazione rispetto al tipo di lavoro da svolgere, e questo è grave. Si perde di vista quello che a ciascuno piacerebbe fare. Anch’io oggi aspiro alla stabilità, perché è troppo faticoso in questo sistema riciclarsi, ogni volta ricominciando daccapo. Un sistema del genere è frustrante e logorante per i singoli e inefficiente sotto il profilo della qualità del lavoro, perché se non trovi il lavoro, la tua voglia di fare viene mortificata. E quando hai il lavoro, non puoi concentrarti solo su quello, perché sai che non durerà, e quindi in parallelo devi cercarne un altro, devi studiare per partecipare ai concorsi, approfondire materie che potrebbero esserti utili. Ho sempre vissuto il lavoro con un’ansia profonda.”
Com’è lontana l’immagine di L.G. e delle persone con cui sto parlando per questa inchiesta da quelle critiche ai giovani che sono state mosse alcuni mesi fa. Giovani svogliati, senza nerbo, in una parola ormai anche questa “logora”, usata e abusata: “bamboccioni!”
“Ho fatto tanti lavori diversi, anche se ho cercato sempre di mantenere un livello qualitativo abbastanza alto. Non ho mai lavorato in un call center, ma ho fatto la commessa ad esempio. In qualche caso ho dovuto accettare qualche lavoro che non mi convinceva e che non mi gratificava, per poter continuare a inseguire il mio sogno. Ho lavorato in nero, come co.co.co, poi ho aperto la partita Iva, poi ho chiuso la partita Iva e sono diventata co.co.pro. Come vedi ho una lunga esperienza, anche nelle forme di lavoro. Però, sai qual è la cosa assurda del nostro Paese? E’ che quanto più il lavoro è qualificato, tanto più lo devi fare gratis. C’è una cattiva abitudine di sfruttare la situazione, di sfruttare la necessità di un giovane di rimanere in determinati contesti lavorativi sia nel privato che nel pubblico ormai. Penso agli stages continuamente rinnovati, che ti offrono il contatto con certi ambienti, per cui un giovane accetta di rimanerci nella speranza di avere un contratto. Penso al precariato stabile, avallato anche nella pubblica amministrazione, per una questione di minori costi e per la stabilità e continuità che riesce a garantire al datore di lavoro. E’ il sistema che va cambiato”.
Il ritratto che L.G. mi sta rappresentando, seppur espresso con una dolcezza ed un equilibrio interiore ammirevoli, mi fanno percepire soprattutto una sensazione sempre più forte di indignazione e sottilmente di rabbia per lo spreco che in questo Paese si sta perpretando da decenni nei confronti di generazioni di giovani volenterosi e pieni di sogni. E chi parla di “bamboccioni” dovrebbe evitare di incorrere in banali generalizzazioni, ma incontrare e parlare, come stiamo tentando di fare noi, con queste persone che hanno visto la propria vita segnata da una condizione subìta, loro malgrado. Persone, però, che non hanno mollato mai e non sono stati alla finestra a guardare che qualcuno gli portasse in dono il proprio futuro, ma che hanno lottato e lottano silenziosamente, dignitosamente ogni giorno. Non ci può essere riprovazione nei confronti di queste persone, ma solo ammirazione per chi abbia capacità e voglia di conoscere questi giovani e meno giovani, che questo Paese avrebbe dovuto utilizzare e valorizzare e non logorare, frustrare e mortificare. E perché non si dovrebbero cercare anche in questa incapacità di dare spazio alle nuove generazioni, le ragioni di una crisi economica e sociale, il cui bandolo non si riesce più a trovare? Troppi fili si sono persi, per riannodare la matassa bisognerebbe avere il coraggio, la capacità e la voglia di recuperarli.
La mia chiacchierata è finita, saluto L.G., la ringrazio sinceramente della disponibilità, guardo i suoi bimbi e per un attimo penso al loro futuro. Ci guardiamo entrambe, abbiamo pensato la stessa cosa. Loro no, per loro ci dovrà essere un altro futuro e questo bisognerà cominciare a costruirlo da subito.