Un’ampia riflessione, estremamente attuale, sull’idea di felicità scritta alcuni anni fa da Lapo Berti. Il tema della felicità è strettamente collegato al senso che gli uomini attribuiscono alla loro vita. La felicità è in nostro potere, perché dipende da come guardiamo alle cose. La politica non è più in grado di svolgere la sua funzione di governo della società, in modo da rendere il vivere insieme la condizione primaria per la realizzazione delle aspirazioni individuali. La politica e l’economia stanno privando l’uomo della propria libertà individuale, trasformando la ricerca della felicità da sfida esistenziale in cui ciascuno mette in scena il proprio tentativo di dare un senso alla propria esistenza in motore dell’economia dei consumi di massa. Il progresso scientifico e tecnologico promette all’uomo la prospettiva di una felicità permanente, ma gli sottrae qualsiasi forma di libertà, imponendogli nuovi modelli di vita e di comportamento a cui deve uniformarsi.
Mi sono imbattuto nel tema della felicità, mentre tentavo di chiarire quali dovrebbero essere gli obiettivi della politica economica e, più in generale, della politica di governo della società, in un momento in cui questi termini sembrano aver perso la capacità di evocare contenuti precisi e ampiamente condivisi.
Forse è per la prima volta, da quando è iniziata l’avventura della modernità, che ci chiediamo con tanta ansia e preoccupazione se siamo davvero in grado di governare l’economia e, più in generale, la società e se gli obiettivi che fin qui ci siamo posti erano quelli giusti e concretamente perseguibili.
Si è dato per scontato che l’accrescimento della ricchezza disponibile, anche indipendentemente dalla sua distribuzione, fosse l’obiettivo che meglio di tutti interpretava e soddisfaceva i desideri della gran massa dei cittadini. E si è dato per scontato che le politiche economiche poste in atto dai governi non fossero semplici narrazioni, ma potenti strumenti in grado di realizzare, con meccanica precisione, gli obiettivi proposti. Crescita del reddito e politica economica sono le due chiavi di volta su cui, in nome del progresso, si è costruito l’edificio della modernità ed è cresciuto il mito della politica moderna.
La crisi della politica, di cui tanto si parla da qualche decennio, non è solo una crisi di legittimazione dei politici e non è solo una crisi della moralità pubblica che dovrebbe regolare, in ultima istanza, l’esercizio del potere politico in un regime democratico.
[..] E’ la crisi della politica intesa come strumento per il perseguimento di obiettivi collettivi condivisi, più o meno razionalmente definiti, della politica come strumento per la realizzazione del “paradiso” in terra, che fosse il regno della libertà o della società senza classi, finalmente sottratta al giogo terribile della necessità. E’, in definitiva, la crisi della politica così come è venuta costituendosi nell’ambito del progetto moderno imperniato sull’idea di progresso e della politica intesa come capacità di governare la società nell’interesse di tutti, in vista del bene comune. La crisi della politica come progetto nasce dall’inefficacia delle politiche concrete e si alimenta dell’irraggiungibilità degli obiettivi.
Una crisi finanziaria dalle conseguenze devastanti ha mostrato quanto poco la politica sia attualmente in grado di controllare e, tanto meno, indirizzare i processi economici. L’evidente deterioramento dei contesti sociali unito al diffuso peggioramento delle aspettative fanno il resto. Rimettere in discussione gli obiettivi tradizionalmente perseguiti è a questo punto, un passaggio necessario e non rinviabile.
Non sono l’unico né, tanto meno, il primo a chiedermi se l’obiettivo della crescita ininterrotta del reddito e della ricchezza, che è stato fino a oggi, in tutto il mondo, il faro delle politiche governative e il fulcro intorno a cui ruota il gioco politico, sia quello più appropriato per apportare alle persone ciò che, da sempre, i politici di qualsiasi orientamento dichiarano di voler perseguire: la maggiore felicità possibile per il più gran numero possibile di individui, secondo la formula benthamiana che incontriamo sulle soglie della modernità, con l’assunzione implicita, ma ampiamente condivisa, che condizione imprescindibile della felicità sia il possesso di adeguate risorse economiche.
Da alcuni anni, infatti, l’insoddisfazione per il modo in cui generalmente è gestita l’economia, per le cattive prestazioni che essa offre sulla base dei parametri che essa stessa propone e, infine, per la sempre più evidente incapacità di assicurare il livello di benessere promesso, ha cominciato a intaccare anche le più radicate convinzioni di una casta così conservatrice come quella degli economisti ortodossi. L’obiettivo della crescita economica, seppur continua a dominare lo scenario politico, non è più incontestato.
I benefici, innegabili, che tradizionalmente si attribuiscono alla crescita del reddito, sono sempre più spesso messi a confronto con un elenco impressionante di effetti negativi. La bilancia, sempre oscillante, sembra talora pendere dalla parte dei secondi. La grave crisi in cui versa l’economia mondiale non fa che rendere più drammatico il contesto in cui questa riflessione si colloca. Con crescente determinazione, ci si è messi in cerca di nuovi e più affidabili indicatori che, restituendo una rappresentazione più accurata di ciò che le persone vogliono, forniscano ai decisori politici indicazioni più certe e più chiare sugli obiettivi da privilegiare e da perseguire. La felicità è riemersa, da un passato in gran parte dimenticato, ma glorioso, come uno dei più titolati candidati a prendere il posto dell’ormai squalificato PIL nell’armamentario con cui quotidianamente i politici di oggi affrontano la sfida della comunicazione di massa.
Sono rimasto colpito dalla superficialità, ma anche dalla iattanza, con cui il tema della felicità è stato improvvisamente scoperto e riproposto come verità auto-evidente. Mi ha sorpreso la facilità, tipicamente contemporanea, con cui si sono messi da parte i risultati di un’elaborazione millenaria intorno ai contenuti della vita che vale la pena di essere vissuta.
Mi ha inquietato il proliferare di “manuali” e di “esperti” che promettono le chiavi della felicità, la sicurezza con cui economisti e politici maneggiano questo concetto così fragile e delicato. Mi è sembrato, per converso, che, di fronte alla sempre più manifesta e drammatica incapacità dei sistemi politici di venire incontro alle aspettative se non addirittura ai bisogni primari della maggior parte dei cittadini, sia necessario tornare a interrogarsi in maniera radicale su ciò che conferisce senso alla vita individuale e collettiva, su quali siano i fini che è ragionevole proporre alle comunità umane.
Questo implica, da un lato, che ci si chieda quale sia, in generale, il senso che gli uomini attribuiscono alla loro vita e di che cosa abbiano bisogno, di che cosa vadano in cerca, nel tentativo di realizzarlo. Dall’altro lato, occorre chiedersi quali siano i requisiti che rendono possibile il vivere insieme come condizione primaria per la realizzazione delle aspirazioni individuali a provvedere di senso la propria esistenza quotidiana. Al giorno d’oggi, questo significa, in primo luogo, verificare lo stato della coesione sociale e stabilire quali obiettivi sia necessario porre ai sistemi politici ed economici affinché il loro modus operandi non produca gli effetti disgreganti che sono sotto gli occhi di tutti.
La patente crisi di legittimità, che ormai da decenni sta logorando i sistemi politici che si richiamano ai valori della democrazia e si accompagna tristemente al permanere di regimi dai tratti dittatoriali, pone in luce una divaricazione semplice quanto drammatica fra le dinamiche interne del potere economico e politico, da un lato, e le aspirazioni dei cittadini, dall’altro.
La promessa della crescita ininterrotta, con le porte del benessere che sembravano aprirsi per platee sempre più vaste, che è il fondamento su cui poggia il patto sociale dal quale sono nati e su cui si sono retti gli Stati moderni, non appare più credibile e, soprattutto, si comincia a sospettare che il sentiero della crescita economica non porti da nessuna parte o, peggio, porti verso un inesorabile peggioramento delle condizioni di vita materiali e non solo. E’ tempo di muovere verso nuovi lidi, non senza aver fatto i conti con la crisi della seconda modernità che prende forma sotto il segno della globalizzazione.[…]
La ricerca della felicità è un anelito insopprimibile, che sembra appartenere alla natura umana in quanto tale e che è, dunque, condiviso da tutti gli uomini, a qualunque fede politica o religiosa appartengano, in qualunque parte del mondo vivano. Nessun sistema di convivenza sociale può reggere, alla lunga, se non riesce a dare una soluzione accettabile e accettata alla richiesta di felicità che gli individui rivolgono al contesto in cui vivono. […]
La stessa legittimità del sistema politico sembra poggiare, in ultima istanza, su questo scambio: l’esercizio del potere in cambio del diritto individuale a perseguire il compimento dei propri sogni. Si potrebbe addirittura sostenere che la ragione ultima della convivenza, ciò che fonda l’ordine sociale, non è altro che la convinzione, culturalmente espressa e individualmente condivisa, che la promessa della felicità è realizzabile solo in un universo di relazioni governato dalla logica dello scambio. Ciò che rende accettabile la condivisione del proprio destino con quello di migliaia e di milioni di individui sconosciuti, è la consapevolezza, maturata nel lungo e oscuro percorso della civiltà, che solo questa forma di cooperazione, apparentemente strana ed estranea, è in grado di assicurare all’individuo la sicurezza del suo avvenire e la moltiplicazione delle opportunità per migliorare la sua condizione. […]
Ora, quando, come sembra che stia accadendo, si vanno a toccare queste corde profonde dell’animo umano, quando si mettono in gioco i fondamenti della condizione umana quale si è venuta formando in quel gigantesco processo di trial and error che è la storia non scritta della civiltà umana, bisogna sapere che si stanno manomettendo alcuni dei meccanismi più delicati che tengono insieme le società umane. Se l’individuo perde la speranza di poter realizzare il suo progetto di vita e di inseguire la sua idea di felicità, la fiducia nel patto sociale che rende possibile la convivenza di milioni di persone reciprocamente estranee è destinata ad assottigliarsi, con la terribile conseguenza di suggerire, se non addirittura imporre, l’adozione di comportamenti asociali o antisociali, che farebbero di nuovo balenare la sinistra prospettiva del bellum omnium contra omnes. La situazione dell’homo homini lupus è sempre dietro l’angolo, ogniqualvolta l’individuo non sappia più cosa è e cosa potrebbe essere la sua felicità. […]
[…]tutti gli uomini aspirano alla felicità, nel senso che il pensiero della felicità è il primo e più forte movente che interviene a orientare le loro azioni […]. La civiltà potrebbe essere addirittura concepita come il frutto degli sforzi che gli uomini hanno dedicato, da quando esistono su questa terra, a rendere possibile un’idea di felicità che si è evoluta e continua a evolversi nel tempo sulla base dell’impulso primigenio a esistere. In questo senso, le diverse soluzioni che nel corso del tempo sono state date al problema della felicità, lungi dal rappresentare l’una il superamento dell’altra, non sono altro che esplorazioni dell’animo umano e del mistero dell’esistenza che ci pongono in mano i mattoni con cui costruire la felicità di oggi ovvero l’immagine di una vita che valga la pena di essere vissuta nell’età della globalizzazione.
Un grande filosofo, riflettendo sulla felicità, ha posto in dubbio l’affermazione che tanto spesso si incontra nei testi di coloro che, in tutti i tempi, si sono occupati di che cosa rende la vita felice, ovvero che la felicità è l’unica cosa che conta nella vita (Nozick 1989, ch. X). […] Nozick si chiede se è davvero la quantità di felicità. che vogliamo massimizzare quando affermiamo di mirare a una vita felice o se non abbiamo piuttosto in mente un determinato percorso della nostra vita. […] La felicità, insomma, non è l’unico bene che perseguiamo come fine a se stesso, come riteneva Aristotele. Ce ne sono altri, come la percezione di un rapporto pieno ed effettivo con la realtà […], oppure la condivisione di ciò che accade con altre persone. […] Per poter affermare che la vita di qualcuno è felice, occorre che vi siano altre cose che hanno valore per noi e la cui presenza nella nostra esperienza di vita ne determina il livello di felicità nel suo insieme. Ciò significa, nella meditazione di Nozick, che la felicità è interamente inscritta nella dimensione della soggettività. In questo senso, “la felicità è in nostro potere”, perché “dipende da come guardiamo alle cose”, da come e dove stabiliamo i nostri punti di riferimento.
In questo modo, il ragionamento assume un andamento inevitabilmente circolare, che sembra farci sfuggire di mano il significato dell’esperienza della felicità proprio nel momento in cui sembrava di poterlo afferrare. Lo stesso Nozick […] conclude la sua meditazione: “Quel che vogliamo, in breve, è una vita e un io in cui la felicità sia una risposta appropriata – per poi dare la stessa risposta alla felicità”. Nozick ci lascia soli, dunque, proprio sul più bello e ci lascia con il dubbio che la felicità non sia quel bene unico e supremo di cui tanti autori ci hanno parlato e, soprattutto, che sia un’esperienza irrimediabilmente sfuggente, di cui è estremamente difficile definire i contenuti. […]
Il tema della felicità è solo apparentemente semplice e banale. In realtà esso mette alla prova tutte le nostre conoscenze disciplinari, dalla biologia alla neurologia, dall’antropologia alla psicologia, dalla filosofia all’economia, alla politica, nel tentativo di mettere a nudo il senso profondo della nostra esistenza o, se si preferisce, ciò che caratterizza, in maniera unica e specifica, la condizione umana. […] il potere della tecnica si è ormai pienamente affermato e in cui l’uomo, forte del dominio sulla natura che la tecnica gli pone a disposizione, ritiene di essere finalmente padrone del proprio destino e di poter plasmare l’uomo. […] La felicità è ormai solo un prodotto della tecnica, ma questa sua ennesima metamorfosi ne ha profondamente cambiato la natura. La secolarizzazione l’ha tolta dal regno dei cieli e l’ha definitivamente collegata al mondo dei beni terreni. La felicità ormai alla portata di chiunque, ogni desiderio può essere soddisfatto, ma c’è un prezzo da pagare.[…]
La nuova felicità è possibile in un mondo da cui la libertà individuale sta progressivamente scivolando via, sospinta da una crescente volontà di manipolazione dei processi sociali sostenuta da una fiducia senza limiti nei poteri della scienza; un mondo in cui l’ideale dell’uguaglianza slitta progressivamente verso quello dell’uniformità. La felicità del Mondo Nuovo ha un’allarmante compagna: la sottomissione. Le vie della felicità, come quelle dell’inferno, sono lastricate di buone intenzioni e, non di rado, portano davvero all’inferno. […] La promessa della felicità in terra, che inaugura la modernità e gli imprime il suo segno caratteristico, si presenta come il portato inevitabile della secolarizzazione e dell’affermazione dell’individualismo, ma si rivela presto come un’astuzia della ragione politica, come uno dei pilastri su cui poggia il potere e da cui dipende la sua stabilità nell’era delle democrazie di massa.
La ricerca della felicità non contrassegna lo spazio assegnato al dispiegamento delle potenzialità dell’individuo e, soprattutto, all’affermazione della sua libertà […] La ricerca della felicità è diventata un culto, con tanto di riti e sacerdoti. A poco a poco, mentre prendeva forma la seconda modernità in cui ancora viviamo, nel nostro orizzonte sociale si è stabilmente installato l’imperativo della felicità. Si tratta di un imperativo tanto più cogente in quanto è direttamente incorporato nel modo di produzione su cui poggia la riproduzione della società. La ricerca della felicità, da avventura individuale, da sfida esistenziale in cui ciascuno mette in scena il proprio tentativo di dare un senso alla propria esistenza, si è trasformata in forza produttiva, in motore dell’economia dei consumi di massa: perpetuum mobile che muove l’intera economia. […] La ricerca della felicità […] [è] diventata il motore inarrestabile e insopprimibile di quel movimento fondamentale della società contemporanea che è il consumo.
Il consumo si è quasi inavvertitamente insinuato nei comportamenti e nel modo di pensare degli individui come l’unico mezzo per soddisfare bisogni e desideri e raggiungere, quindi, la felicità. E’ diventato il tramite privilegiato verso la felicità, determinando una radicale transvalutazione di tutti i valori che orientavano la vita delle persone fino alla prima modernità. E dal mondo dei consumi, ovvero della produzione industriale, vengono, inevitabilmente, continue offerte, promesse, di felicità e, di conseguenza, anche nuovi imperativi sociali, in una rincorsa frenetica che è destinata a rendere sempre più sfuggente e inafferrabile il senso stesso della felicità. La felicità si veste di nuove sembianze, un corpo eternamente giovane e sano, l’apparenza del benessere materiale, tutte rigorosamente destinate ad ampliare il regno dei consumi e a moltiplicare le occasioni di dipendenza dal mercato. Ogni giorno l’immenso apparato dei mass media inonda il mondo di nuovi modelli di vita e di comportamento che incarnano la nuova felicità e che si propongono come standard di riferimento per chiunque non voglia essere considerato e non voglia considerarsi fuori gioco. Di qui il loro potere vincolante, il loro carattere implicitamente, ma inesorabilmente, imperativo.
La società nuova, resa possibile dall’utilizzo intensivo del progresso scientifico e tecnologico, promette all’uomo la prospettiva della felicità permanente, ma gli sottrae qualsiasi forma di libertà. Perché l’ordine sociale sia tale da garantire la felicità eterna è necessario che tutto sia preordinato a quel fine, che l’uomo stesso sia programmato fin nei suoi fondamenti biologici. L’utopia del mondo nuovo, da quando cominciò a essere formulata, agli albori della modernità che proprio in quella promessa ha il suo fondamento costitutivo, non ha cessato di riprodursi.
Come per partenogenesi, ognuno dei suoi elementi ha generato nuove prospettive utopiche, nuovi progetti per un mondo interamente dominato e, addirittura, costruito dall’uomo grazie al progresso delle sue conoscenze scientifiche. La versione più recente e attuale è quella che trova alimento nelle inquietanti possibilità di manipolazione dell’ambiente naturale e dell’uomo stesso che sono messe a disposizione dalle biotecnologie e dalla ricerca biologica. Di nuovo torna a profilarsi l’insidia allettante di un patto faustiano che consenta all’uomo di sottrarsi a quei limiti insuperabili cui il suo essere naturale sembrerebbe averlo condannato. La morte stessa, questo limite supremo e apparentemente invalicabile, comincia ad apparire come un evento “trattabile”, che può essere respinto sempre più lontano nel tempo futuro.
L’alternativa cui ci pone di fronte il mondo della scienza e della tecnica, come proclama unodei personaggi di A noi! di Evgenij Zamjatin .: “Felicità senza libertà o libertà senza felicità”. Qui sta, ancora oggi, il nodo irrisolto, che la causa della felicità ci chiama a sciogliere, procedendo perigliosamente fra due condizioni estreme: quella dell’individuo lasciato solo a inseguire il suo ideale di felicità, da un lato, e la società totalitaria che si prende cura della sua felicità, dall’altro. In medio stat virtus.
Un altro nesso strettamente intrecciato, quasi confuso, con quello fra felicità e libertà, è quello che, fin dalle origini della modernità, intreccia il destino della felicità con quello del progresso. Si tratta, in realtà, di un parto gemellare. Le due idee nascono insieme dal seno dell’illuminismo e l’una, la felicità, è concepita come il fine dell’altra, il progresso, come suo inevitabile corollario. L’illuminismo trasferisce sulla terra la prospettiva del perfezionamento del genere umano, versione laica e moderna della cristiana idea della salvezza, che, in quanto tale, aveva prima la sua naturale collocazione nel regno dei cieli, e, con essa, quello che da sempre ne era stato concepito come il premio finale, la felicità. La felicità assume una sembianza concreta, si riempie di cose e percezioni terrene. […]
Oggi, di fronte al patente esaurimento delle politiche scaturite da quell’impostazione, l’ambizione che risorge è quella di entrare nella complessione intima delle persone per carpire il senso della loro felicità e farne l’obiettivo di un’azione politica che poggia sull’inquietante cancellazione della separazione fra spazio pubblico e spazio privato. Il benessere soggettivo, rappresentato dalla felicità individuale, è l’ultima frontiera della battaglia per la libertà dell’individuo.
(tratto da Lapo Berti, “La felicità perduta. Economia e ricerca del benessere, Luiss, 2010)