Tutto può cambiare in un istante per noi e per coloro che vivono intorno a noi. Ciò che accade svela improvvisamente ai nostri occhi la fragilità e la precarietà della condizione umana di ciascuno di noi; le difficoltà, le ansie, la trasformazione del rapporto con se stessi e con gli altri che ogni cambiamento di questa portata produce. Ogni perdita di autonomia fisica o della propria condizione sana di salute è, a volte, una perdita netta, irrimediabile. Cosa accade fuori e dentro di noi? Come noi possiamo affrontarla con gli altri e come gli altri possono viverla per noi e con noi? La perdita può restare tale o, pur essendo incancellabile, può anche aprire spazi di scoperta, di comprensione, di trasformazione? Un racconto in due parti che trae ispirazione da una storia vera.
Un istante. Basta un istante e la tua vita può cambiare per sempre, può trasformarsi completamente e tu puoi essere trasportato in un’altra dimensione, nuova ai tuoi occhi, immodificabile. Lo sappiamo tutti, ma quando questo accade veramente a noi o a qualcuno che è accanto a noi, è difficile accettarlo. Vorresti tornare indietro un istante prima di quell’istante irrimediabile che ha cambiato la tua esistenza per sempre, ma non è possibile.
Un istante. Era bastato solo quell’istante e mio padre non sarebbe mai stato più lo stesso padre e nemmeno le nostre vite sarebbero state più le stesse vite. Tutto veniva sovvertito, ribaltato da quell’unico, potentissimo, terribile istante, incancellabile.
Improvvisamente il timone della nave era sfuggito a chi lo manovrava, qualcuno doveva afferrarlo, mantenere la rotta e l’assetto della nave, oltre a soccorrere lo sfortunato comandante. La mia famiglia, schiaffeggiata con violenza quella sera dalla vita, stordita, attonita, confusa e disperata, capì che doveva portare la nave in porto in qualunque modo. Tutti i tre componenti dell’equipaggio che sino ad allora avevano apparentemente svolto un ruolo marginale, si adoprarono con intelligenza, intuito, buona volontà e tanta, tanta pazienza per affrontare tutto ciò che quel tragico evento aveva e avrebbe determinato.
I figli si trasformarono in genitori, i genitori in figli. Fu quella la cesura, il momento del passaggio drammatico delle consegne senza cerimonie ufficiali, senza conferimenti di incarichi, senza gradualità, perché non c’era tempo. E così fu, dopo quell’ictus che aveva procurato a mio padre la paresi del lato destro.
Quell’istante si fece avvertire, sconvolgendo le nostre vite in tanti modi e per sempre. Mia madre per mio padre fu il prolungamento dei suoi arti inerti, io l’inadeguato consigliere e l’esile puntello. Ci ergemmo come un’unica barriera umana, mano nella mano, dando quello che potevamo e sapevamo, e reggemmo l’onda d’urto della tragedia. Se costruisci rapporti d’amore e credi profondamente che attraversare la vita sia stare uniti ad altri esseri umani, l’albero colpito continuerà a crescere e a non morire.
Nessuno mi aspettava più alla fermata dell’autobus per riportarmi a casa ogni volta che tornavo nella mia città. Avevo scelto di vivere altrove, dove la mia libertà emotiva, professionale e personale aveva trovato spazio, ma ci sono immagini, odori, colori, sapori, orizzonti che i tuoi sensi hanno respirato dal momento in cui tu eri ancora nella culla materna. Così quando viaggi, ti allontani, ti inoltri nella vita e nel mondo, questo insieme costituisce il tuo vero e unico bagaglio, di cui non ti dovresti mai privare e che dovresti ampliare, trovando spazi e incrociando altre immagini, suoni, odori, orizzonti, come una pianta che fiorisce continuamente, ma mantiene sempre le sue radici ramificate e profonde. Così lo sguardo del mio ritorno è sempre stato illuminato dai cappelli dei pini mediterranei che si protendono verso il mare, dall’immensa distesa d’acqua che circonda la conca fertile delle mie origini, dalle strisce di terra che si svelavano pian piano ai miei occhi sempre più stupiti e emozionati e da quel monte mozzato, saldo e imponente, quieto e minaccioso – il Vesuvio -, che circumnavigavo per raggiungere “la mia casa”. Il cuore che vuole vivere cerca di scegliere e far affiorare nella memoria solo le sensazioni più vitali, anche se i ricordi meno lieti sono forse più radicati, ma più nascosti, anche a noi stessi. Nessuno dei nostri ricordi ci abbandona, è il nostro bagaglio di viaggio. Qualcosa o qualcuno improvvisamente smuovono la terra argillosa che li ricopre e riviviamo ancora nel presente l’emozione che è legata ad essi. Sentivo il sapore della nostalgia e la commozione per la mia terra d’origine, che mi faceva affiorare sulle labbra un’esclamazione di stupore e compiacimento per essere nata in un posto così straordinariamente bello, cancellando per un attimo tutti gli altri sentimenti negativi.
La nostalgia diventava amarezza, quando mi avvicinavo alla fermata dell’autobus che mi stava riportando nella mia città.
Nessuno mi aspettava più in quella strada, felice di vedermi. Cercavo sempre di ignorare quel vuoto, ma ogni volta si riproduceva quella sensazione ed ero come risucchiata da una macchina del tempo, che mi riportava indietro di mesi ed anni alla prima immagine che compariva ai miei occhi ogni volta che tornavo: una Fiat Panda verde parcheggiata in doppia fila. Qualcosa e qualcuno erano lì ad aspettarmi. Poi invece mi sembrò sempre più vuota e amaramente squallida quella strada.
Tornare era come rivivere quei ricordi amari. Non vedere nessuno ad ogni ritorno amplifica la tua solitudine, moltiplica la tua inquietudine. Quando alla vista non comparve più quella minuscola macchina verde, sentii che un’altra fase della mia vita si era conclusa per sempre. Sapevo che non l’avrei mai più rivista ad attendermi, eppure inavvertitamente ogni volta lo sguardo si sporgeva oltre il finestrino al sopraggiungere della meta, quasi a superare i vincoli del tempo e del destino, per ricrearla ancora un’ultima volta nell’immaginazione.
L’amarezza del vuoto, dell’assenza era nascosta dietro il pensiero che era solo rinviato l’incontro con chi mi attendeva, ma il tempo, pur breve che mi obbligava a percorrere la strada verso casa, era così intriso di ricordi, che ero irrimediabilmente sommersa da un’impalpabile, ma opprimente onda emotiva. In pochi istanti, quando già ero sull’uscio di casa, ricercavo sempre più faticosamente il mio sorriso migliore, la mia ombreggiata allegria verbale per mascherare e mostrare apparentemente che tutto era normale.
Trascinavo un cuore sempre più gonfio, ma celato dietro una banale normalità, che si sgretolava solo quando l’incapacità di sopportare quel fardello, doveva necessariamente fuoriuscire straripando anche solo per poche semplici gocce di troppo. […]
Il tempo era trascorso e le nostre vite si erano adattate alla nuova situazione.
Un giorno in un parco, mentre mio padre stava provando faticosamente a raggiungere una panchina, accompagnato e sorretto da me, due bambini si erano fermati a guardarlo. Erano gli unici. Nel parco, vicino casa, ognuno continuava la sua vita, seguiva i suoi ritmi, si dedicava alle sue attività, mentre mio padre si muoveva con un ritmo tutto suo. I due bimbi piccoli lo guardavano con quella tenerezza, quella curiosità e quello stupore che gli adulti hanno ormai perduto. La bambina si avvicinò a me e richiamò la mia attenzione tirandomi la giacca. Anche mio padre si voltò e le sorrise. La bimba rispose allo stesso modo. Si stavano già parlando. La bimba con molta delicatezza e una vocina sottile, sottovoce, quasi non volesse farsi ascoltare da mio padre, mi disse: “Perché cammina come una tartaruga, mentre gli altri corrono come gazzelle?”
Ecco questa immagine mi è sempre piaciuta e mi ha sempre emozionato ricordarla. Mio padre era diventato improvvisamente una tartaruga, circondata da un branco di gazzelle. Mi sarebbe venuta voglia di risponderle che una strega cattiva aveva trasformato mio padre da gazzella in tartaruga e che se avessimo trovato una pozione magica per liberarlo dal sortilegio sarebbe tornato come prima. Non ebbi il coraggio o la fantasia di mentire, le dissi la verità. Uno degli ingranaggi del suo corpo si era guastato e il suo lato destro non funzionava più come prima. La bimba insisteva “E non si può fare niente per aggiustarlo?”. Adoro i bambini perché rappresentano una speranza e un guizzo di luce in un momento oscuro e credono ancora che tutto sia possibile. “No, non si può fare niente”. La bimba si avvicinò a lui. Aveva ricevuto da me le informazioni che voleva ed era già proiettata nella sua istintiva e acuta sensibilità infantile verso di lui, la persona debole da aiutare e proteggere. Appoggiò la sua manina tenera sul braccio destro abbandonato e inerte di mio padre e gli chiese “Ti fa male?”. “No”, disse mio padre “non mi fa male, solo che non riesco più a piegare la gamba e non ti posso prendere neanche per mano perché il mio braccio destro non funziona più”. “Lo so” disse la bimba “è rotto, ma non ti preoccupare ,ti aiuto io”. L’altro bimbo aveva assistito alla scena, si era avvicinato, ma in silenzio e più in disparte seguiva il colloquio. Le bambine sono sempre più intraprendenti. “Sei una bella bambina, lo sai?” disse mio padre “bella e buona. Grazie!” La bimba lo guardava compiaciuta e continuò “Ha detto la maestra che le tartarughe sono animali saggi… Io ho una tartaruga a casa. A me piacciono le tartarughe”.
Per i bimbi le diversità non esistono e se ci sono, le annullano con il candore dei loro sguardi, dei loro sentimenti, dei loro cuori, capaci di riversare solo tenerezza e poesia. E’ vero, mio padre si muoveva come una tartaruga: la testa e il collo che si protraevano in avanti in uno sforzo e un fremito che seguiva in tutto il corpo. La gamba sana che compiva sicura il primo passo e il guscio che era costretto faticosamente a trascinarsi dietro, la parte destra, facendo leva su un treppiedi, la sua terza gamba.
Mi ha sempre colpito il fatto che noi ci siamo sempre scusati con tutti per il disturbo che la sua disabilità procurava. In qualunque occasione mio padre entrava in contatto con gli altri, chiedeva sempre scusa di essere un disabile, sentendosi di peso, un elemento di disturbo, di essere una stupida e inutile “tartaruga”, mentre le gazzelle correvano. Non si sa dove, ma correvano. Un intralcio. (Link alla II parte)