Marco Ziggiotti e Gabriele Piersimoni raccontano la loro passione per la scienza nata all’Università, ma soprattutto la loro scoperta casuale di una professione che gli avrebbe permesso di comunicare anche agli altri la bellezza di ciò che stavano conoscendo. Hanno scelto di diventare, perciò, divulgatori scientifici, una professione poco conosciuta e poco “riconosciuta”, come dichiarano loro stessi, ma indispensabile per rendere comprensibili e accessibili a tutti la complessità e il fascino dell’universo.
Come casuale è stata la scoperta della professione di “divulgatore scientifico” per Marco e Gabriele, classe 1983-84, laureati in Fisica e specializzati in tecnologie spaziali, altrettanto casuale è stato per noi incontrarli. L’occasione l’ha offerta “Gravity. Immaginare l’universo dopo Einstein”, la mostra che si è svolta al Maxxi dal 2 dicembre 2017 al 6 maggio 2018, realizzata con il supporto scientifico dell’INFN, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e dell’ASI, Agenzia Spaziale Italiana, in collaborazione con l’artista argentino Tomas Saraceno per indagare le connessioni e le profonde analogie tra arte e scienza e raccontare gli sviluppi della teoria della relatività nella visione odierna dell’universo.
La mostra per essere fruita richiedeva la mediazione di divulgatori scientifici, che si aggiravano per le sale del Maxxi offrendo il loro supporto alla scoperta dei misteri dell’universo. Marco Ziggiotti comincia a parlare di particelle elementari, della concezione spazio-tempo di Einstein, delle tesi della meccanica quantistica, e viene sottoposto ad una raffica di domande dei presenti, adulti e ragazzi, che, sollecitati e incuriositi, vogliono saperne di più, superando i temi stessi della mostra, per toccare anche la recente scoperta del Bosone di Higgs. Marco mostra una passione per quei temi, che traspare dalle sue parole e dai suoi gesti. Così l’abbiamo contattato e qualche settimana dopo ci siamo ritrovati con lui e il suo amico-collega Gabriele Piersimoni in un bar a chiacchierare della loro professione.
Gli chiedo come hanno capito di voler diventare divulgatori scientifici. Entrambi stavano completando il ciclo di studi in Fisica all’Università di Tor Vergata a Roma e casualmente hanno scoperto la possibilità di svolgere questa attività: Gabriele grazie ad un corso tenuto dal prof. Buonanno, all’epoca direttore dell’Osservatorio Astronomico di Roma con sede a Monteporzio e Marco grazie alla società di divulgazione scientifica “Scienza e Scienza”, convenzionata con l’Università di Tor Vergata, società con cui è entrato in contatto per circostanze assolutamente fortuite. Entrambi hanno, poi, frequentato il Master in Scienze e Tecnologie Spaziali, che comprendeva il modulo di Comunicazione scientifica tenuto dalla d.ssa Livia Giacomini, responsabile della comunicazione e divulgazione dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali.
Nessuno dei due aveva, comunque, mai pensato che la divulgazione scientifica potesse diventare la professione della vita. Gabriele, appassionatosi al corso del prof. Bonanno, si è ritrovato a lavorare come guida nel museo dell’Osservatorio di Monteporzio, proseguendo poi l’attività all’Università e partecipando anche a festival scientifici. Marco, continuando a collaborare con la società “Scienza&Scienze” di Roberto Mancini, ha deciso di svolgere lo stage del Master proprio con la d.ssa Giacomini all’Istituto di Astrofisica, pur sapendo che non vi sarebbero state possibilità di un inserimento lavorativo presso l’Istituto. Marco racconta di aver esplicitamente detto alla dottoressa “A me non interessa se il lavoro non me lo dà, io voglio imparare a fare questo mestiere. Meglio di lei chi me lo può insegnare?“. Anche Gabriele, che ha seguito lo stesso corso, riconosce soprattutto che grazie alla dott.ssa Giacomini ha imparato tutto quello che sta “dietro” questa attività: la progettazione, la programmazione e l’organizzazione del lavoro, persino la realizzazione di siti web, perché bisogna saper fare tutto e questo è l’aspetto più divertente di questa professione.
Cerco di capire, allora, in che cosa consiste esattamente la loro attività e che tipo di impegno richiede. Innanzitutto, realizzano laboratori scientifici presso le scuole attraverso società o agenzie specializzate, occupandosi anche della loro progettazione, partecipano a festival scientifici, mostre o eventi organizzati da varie istituzioni, collaborano per realizzare progetti o rispondere a bandi specialistici. E’ proprio la varietà della loro attività che mantiene vivo il loro interesse e divertimento. L’impegno richiesto è quello di una continua formazione: leggere, leggere tantissimo di scienza e comunicazione della scienza.
Gabriele e Marco sembrano soddisfatti e mi incuriosisce a questo punto conoscere non solo le gioie ma anche i dolori che questa attività gli ha riservato, considerando che la svolgono ormai da diversi anni.
Gabriele non ha dubbi. Le gioie sono state tante, soprattutto quella di aver scoperto che questo è il lavoro che gli piace fare. “Torno a casa, a volte, dopo 12 ore di lavoro e non sono stanco. E’ un lavoro molto stimolante, sempre a contatto con persone diverse e sempre diverso… Poi quando arriva un bambino a fine lezione e ti abbraccia…“.
Però, anche i “dolori” non sono mancati. Si tratta di una professione non riconosciuta, che devono svolgere in qualità di liberi professionisti, accettando le richieste dei clienti, che a volte non li coinvolgono nella preparazione delle attività e non considerano adeguatamente la loro professionalità. Quindi non sempre è piacevole trovarsi in queste situazioni, ma hanno imparato a gestirsi e a dire anche qualche “no”.
Molti, purtroppo, pensano ancora che questo lavoro, in realtà, sia un hobby, un lavoretto estivo, un’attività filantropica da portare avanti nei ritagli di tempo, invece per loro è “il lavoro” grazie al quale pagano tranquillamente l’affitto. L’attività si concentra soprattutto durante l’arco dell’anno scolastico, periodo in cui lavorano anche intensamente, mentre nel periodo estivo, le attività vanno cercate.
Sulla loro condizione di “precari” hanno le idee chiare e non mostrano particolari ansie e preoccupazioni. La loro è stata una scelta consapevole. Marco mi dice chiaramente “Io ho fatto un ragionamento quasi banale. E’ vero che personalmente mi stavo lanciando in una storia che poteva non darmi niente, ma ero circondato da persone che non avevano prospettive migliori delle mie, anzi mi comunicavano un tale livello di frustrazione per l’impossibilità di fare quello che gli piaceva che cominciavano a detestare il proprio lavoro. Detestare il mio amore per la fisica? Non lo avrei permesso, quindi se non avessi trovato un lavoro avrei saputo con chi prendermela: me stesso. Questa precarietà, invece, di vederla come una condizione che alla lunga ci avrebbe logorato, l’abbiamo vissuta come un’opportunità, inventandoci un lavoro. E’ vero che in Italia siamo in ritardo rispetto agli anglosassoni almeno di una ventina d’anni, ma qualcosa si sta muovendo, a partire dai centri di ricerca e secondo me i tempi sono maturi per fare di questa attività un vero e proprio lavoro“.
Gli chiedo a questo punto se consiglierebbero questa professione a qualche giovane e che cosa riterrebbero essenziale per poter svolgere questo lavoro nel modo migliore. Lo consiglierebbero anche a prescindere dalla possibilità di farne una professione perché nelle scienze, ma forse in qualsiasi professione saper comunicare è fondamentale, e saper comunicare implica la capacità di saper semplificare. Paradossalmente, però, saper semplificare è un’operazione complessa, che richiede una grande padronanza della materia e degli strumenti comunicativi.
Per svolgere al meglio questo lavoro si deve, innanzitutto, sentire l’ansia, l’urgenza di voler comunicare la bellezza di ciò che si conosce, una sorta di vocazione. Marco mi dice “Quello che so fare oggi me l’hanno insegnato e si può imparare, mentre l’urgenza di comunicare quella ti appartiene. Ho sempre sofferto del fatto che le cose molto belle che studiavo erano complesse da far arrivare.” Gabriele conferma questa strana sensazione, quando mi dice “Sentivo come una frustrazione la difficoltà di non riuscire a spiegare ciò che studiavo e che mi appassionava ai miei genitori e ai miei amici “.
Visto che la loro attività si svolge in modo particolare a contatto con i ragazzi presso le scuole, gli chiedo quali reazione mostrino i ragazzi con cui entrano in contatto e soprattutto se abbiano notato differenze in relazione alle fasce d’età.
Ogni anno incontrano circa 30.000 studenti ed entrambi riconoscono che sono i ragazzi delle scuole elementari quelli che manifestano stupore nel senso più alto del termine e per questo sono i più facili da approcciare. Già alle scuole medie la situazione cambia, bisogna investire più energie per conquistare la loro fiducia e la loro attenzione. I ragazzi li vedono come altri insegnanti verso cui immediatamente scatta una reazione di diffidenza. Eppure, anche in realtà sociali difficili come i quartieri di “Tor Bella Monaca o San Basilio”, quando sono riusciti a superare le resistenze iniziali, riconoscono di aver incontrato “ragazzi meravigliosi. E questo è bello perchè dimostra l’universalità della bellezza, della cultura che tu porti. Serve solo saper arrivare“.
Nel caso dei ragazzi delle scuole superiori, invece, hanno riscontrato uno “stacco pazzesco”, perchè “anche chi sarebbe interessato per non passare da sfigato, finge di non esserlo. C’è una sorta di rifiuto per tutto ciò che è conocenza“. L’omologazione collettiva impone che “è meglio essere uno che se ne frega della scienza, ma anche della cultura in generale, piuttosto che uno che se ne interessa“. A questo punto la differenza la fa l’insegnante, che, solo se è riuscito a trasmettere la sua autorevolezza, ottiene l’attenzione dei ragazzi su qualunque argomento proponga. E come in un processo assolutamente circolare si ritorna agli adulti che nell’approccio con la scienza è come se ridiventassero bambini, manifestando nuovamente stupore e curiosità.
Marco e Gabriele tornando a descrivermi le potenzialità del loro lavoro, mi confermano che con la scienza non ci su arricchisce, ma è un campo in cui ci sono enormi possibilità, anche se non si hanno le garanzie di un lavoro a tempo indeterminato. In questo sono molto chiari “Il lavoro va cercato, va inseguito, ma anche inventato“. E’ un settore in cui non c’è una grande concorrenza, sono ancora pochi i divulgatori scientifici e sono ancora meno coloro che lo fanno per professione, ma bisogna saper intercettare coloro che possono essere interessati ad utilizzare la loro professionalità.
Una precarietà consapevole, dunque, scelta e non subìta, che apre orizzonti di libertà e creatività appaganti, ma che richiede dedizione, sacrificio, capacità di organizzare le proprie giornate, ridimensionando significativamente il proprio tempo libero, in alcuni periodi quasi a rinunciarvi, mantenendo viva la voglia di affrontare sfide, rischi e difficoltà.
Dopo un’ora e mezza di chiacchierata ci salutiamo, e io riporto con me una piacevole sensazione perché in quegli sguardi ho trovato quel mix di passione, soddisfazione e consapevole gestione del proprio tempo e della propria vita, anche se non priva di difficoltà, che mi piacerebbe vedere sempre più spesso anche negli occhi di altri loro coetanei, i quali forse troppo spesso non riescono, non sanno o non possono scegliere di fare ciò che amano. Ma, non è forse proprio questo che cambia la tonalità e la profondità dei nostri sguardi: fare ciò che amiamo?