di Aldo Bonomi –
Il terremoto ha colpito in Emilia una delle zone d’Italia con la più ricca, articolata e avanzata struttura industriale. I danni sono enormi, i rischi immani, perché i ritmi dell’economia sono inesorabili ed è facile uscire dal circuito dell’innovazione e dell’esportazione e non rientrarvi più. Ma le terre emiliane sono ricche non solo di capannoni industriali, ma anche di capitale umano, sono protette da un ricco e spesso tessuto cooperativo, oltre che da un’invidiabile capacità d’intraprendere. Sono queste le prime risorse che fanno fronte all’emergenza sisma
In quel pezzo di Emilia terremotata il primo elenco che ti fanno i padroncini dei capannoni è quello delle risorse umane rimaste a casa. Arrivando sino al dettaglio delle etnie che erano integrate dentro le mura dell’impresa. Sono 5mila nel meccanico, 2mila nella ceramica, 3.500 nel biomedicale, 1.500 nel commercio e terziario, 4mila nell’agricoltura e nell’industria della trasformazione così come nei servizi, nell’edilizia, nel tessile e nella logistica: sono circa ventimila operai.
Non lo dicono, ma senti che rivendicano un interclassismo nella disgrazia tra padroncini e operai. Rivendicando quella cogestione orizzontale che spesso, quando entri in una di queste imprese, non ti fa capire chi è il padrone e chi è l’operaio. È il primo tassello antropologico della coesione sociale di questi territori. Non può piacere ai teorici del conflitto estremo tra capitale e lavoro, a cui ricordo che è l’eredità storica di quel motto di Togliatti ai comunisti emiliani, lanciato da Reggio Emilia, che li incitava ad “afferrare Proteo”. Avendo afferrato il mercato, subito dopo ti citano i problemi dell’impresa e della filiera produttiva.
Se ci si avvicina all’epicentro del sisma, tracciando un cerchio con un raggio di 10 km, si trovano più di diecimila imprese che occupano oltre 35mila addetti, il 14,2% dei quali stranieri. Realtà prevalentemente manifatturiere, in cui 1.950 aziende mettono al lavoro quasi la metà degli addetti dell’area. È un’area in cui si intersecano gran parte delle specializzazioni territoriale. C’è il biomedicale, con 110 imprese e 3.528 addetti, tra le quali leader multinazionali come Sorin Group, che qui occupa 800 addetti, Gambro Dasco, che ne occupa 721, fino a Mallinkrodt e Bellco, che danno lavoro a 421 e 253 persone.
C’è la meccanica con 215 piccole realtà che danno lavoro complessivamente a 1654 addetti. Ci sono 370 imprese dell’abbigliamento, 2.079 imprese agricole, eccellenze del distretto della piastrella come Ceramica Sant’Agostino e Panaria, con più di 300 dipendenti ognuna, leader di settore come la Wam, che partendo da Cavezzo, dove da lavoro a 403 persone, è stata la prima azienda italiana ad aver aperto una sede a Pudong. Ci sono 259 imprese manifatturiere ad alto o medio-alto contenuto tecnologico, che nonostante tutto provano a competere sulla frontiera dell’innovazione.
Si tratta di realtà che già da anni si stavano confrontando col sisma, altrettanto potente, della crisi. Tra il 2008 e il 2010 il valore della produzione delle imprese era calato del 5,2%, andando a intaccare l’occupazione e a mettere in discussione la sopravvivenza stessa di molte realtà. Se si ferma l’immagine un minuto prima del sisma, si fotografa una situazione in cui il 23,7% delle imprese territoriali – e il 22,4% di quelle dell’intera provincia – era considerata “vulnerabile”.
L’immagine successiva al sisma parla invece di 3500 aziende inagibili e dai 15 ai 20mila lavoratori rimasti a casa. Di 500 milioni di danni per il settore agricolo e altrettanti, se non di più, per quello biomedicale e per quello meccanico mentre i danni nel settore ceramico in quello tessile si stimano attorno ai 110 milioni di euro.
Conoscono la crisi e i mercati del mondo. Sanno che nel produrre per competere non ti puoi permettere di uscire dal ciclo. Da qui il loro ragionare di ricostruzione partendo in primo luogo dalla filiera della coesione sociale. Che vede impegnate la Caritas, le rappresentanze, come Cna e Confindustria, a monitorare i danni e i problemi, i sindaci, che ben conoscono il loro territorio, la Camere di Commercio, la Provincia e la Regione.
Si mettono assieme i saperi contestuali del territorio e i saperi formali dei tecnopoli regionali che attivano le università per muoversi nell’incertezza del ricostruire o delocalizzare dentro un sisma che sembra mai finire.
Senza fretta, ma senza sosta, è il motto della società che si è messa al lavoro declamato da un leader di comunità come Maurizio Torreggiani, Segretario della Cna di Modena e Presidente della Camera di Commercio. Ricordando che tutto questo sarà possibile, certo anche con gli aiuti delle risorse scarse governative, ma ci tiene a rivendicare che tutto è fatto e sarà fatto nella legalità, ma, per favore, senza burocrazia.
Una nebbia ovattata che può smorzare il vitalismo della società che si è messa al lavoro e portare nelle sabbie mobili della crisi. Penso ce la faranno. È molto importante anche per il “ce la faremo”. Perché, ricordiamoci, che da questi territori viene più dell’1% del Prodotto interno lorodo del nostro Paese.
Da “Microcosmi”, Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2012