Un passato che non passa e un futuro che non viene: in balia del declino
di Lapo Berti –
Un passato che non passa e un futuro che non viene. E’ tutta qui la drammaticità della condizione in cui si trova l’Italia. Un sistema politico che è nato bloccato e che non ha saputo evolvere si è rivelato incapace di raccogliere le energie necessarie a produrre la modernizzazione del paese e tanto meno può essere in grado oggi di cogliere le opportunità di cambiamento che la crisi offre. Si esce dalla prospettiva del declino solo con un nuovo sistema politico e una nuova classe dirigente e con una rigenerazione dal basso.
Diciamo subito la cosa che più conta. L’Italia non è vittima di una crisi economica venuta dall’esterno, per colpe e responsabilità non sue, come recita una vulgata variamente condivisa e colpevolmente diffusa dal mondo politico. Certo, c’è anche questo e pesa. Ma l’Italia è, prima di tutto, presa nelle spire di un declino che sta progressivamente soffocando la sua vita economica. Non è un processo iniziato ieri e nemmeno l’altro ieri. E’ l’approdo sciagurato di una trasformazione del paese che non c’è stata, a causa di un sistema politico incapace di esprimere una visione strategica e di un ceto politico incapace di riformarlo. Quella metamorfosi possibile e necessaria, che il nostro paese aspetta da almeno un trentennio, è stata sostituita da una degenerazione progressiva della vita pubblica, colonizzata e asservita da poteri privati che si sono fatti sempre più arroganti e predatori, assecondati da un ceto politico sempre più succube, corrotto, e disponibile ad anteporre l’obiettivo della propria sopravvivenza a qualunque accezione del bene pubblico.
Senza avere la pretesa di somministrare storia in pillole, credo si possa dire che il declino dell’Italia, a partire dal suo sistema economico, è iniziato, senza peraltro che nessuno lo avvertisse, nel momento in cui aveva cominciato ad andare in pezzi il modello di economia mista cui si devono gli anni del miracolo economico. Quel modello non era altro che il portato della sintesi corporativa operata dal fascismo, che si era tradotta in un poderoso apparato economico pubblico guidato da una tecnocrazia abile ed efficiente. La mancata discontinuità con il regime fascista, che, forse, ci avrebbe portato a seguire le orme tedesche di un’economia sociale di mercato, consentendoci di mettere l’economia e la politica del nostro paese in sintonia con quella degli altri paesi dell’occidente, ebbe paradossalmente l’effetto “benefico” di farci cogliere i frutti della riorganizzazione corporativa dell’economia voluta dal fascismo, ma ci lasciò completamente privi di alternative e, quindi, di un futuro, quando fossero venute meno le condizioni favorevoli che avevano determinato il successo di quel modello e che, non dimentichiamolo, erano tutte riconducibili allo stato di arretratezza relativa del nostro paese rispetto alle principali economie europee. Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, c’era un’economia da ricostruire, un ritardo tecnologico da colmare attraverso l'”imitazione”, c’erano grandi investimenti da fare: tutti compiti per i quali l’impianto corporativo ereditato dal fascismo era ben attrezzato e produsse il meglio di sé con la “fioritura” delle partecipazioni statali ovvero di un grande sistema industriale guidato e finanziato dall’operatore pubblico.
Quella combinazione favorevole venne meno negli anni ’70, ma i germi politici della degenerazione erano già all’opera. Nella dinamica bloccata di un sistema politico congelato dal contesto della guerra fredda, con l’impossibilità di una vera competizione politica e, tanto meno, di un’alternanza nella formazione dei governi, si crearono le condizioni perché la stagnazione del sistema di potere cominciasse a produrre i germi della corruzione che alla fine l’avrebbero divorato e avrebbero così divorato anche la speranza di un paese normale.
Il modello di economia mista incentrato sul sistema delle banche pubbliche e delle grandi imprese delle partecipazioni statali affondò nella corruzione, di cui “tangentopoli” fu non la prima ma l’ultima epifania, perché dopo, fino a oggi, non c’è stato altro che il perverso avvitamento in un destino di degenerazione e di declino che era già segnato e che nessuno ha tentato e tenta di contrastare. Anzi, si potrebbe forse dire che si è affermato un ceto politico che, sulla base di una commistione con una parte del mondo imprenditoriale, trae il suo potere e la sua ricchezza dalla capacità di sfruttare, in maniera spregiudicata quanto sconsiderata, le opportunità, se così si può dire, offerte da un’economia fragile e bisognosa di sostegni pubblici, da un sistema ormai privo di regole, da una sostanziale impunità di chi commette illeciti appartenendo alla “casta” e da uno stato largamente incapace di combattere l’illegalità e di assicurare la sostanziale uguaglianza dei cittadini sia nei diritti che, tanto più, nei doveri, a partire da quelli fiscali.
Se quest’analisi, nella sua concisione e anche nella sua rozzezza è solo approssimativamente appropriata, ne deriva che, anche ammesso e non concesso che qualche governo tecnico ci porti fuori dalla crisi, il nostro destino resterà inscritto nella traiettoria del declino, se non sapremo andare alla radice di quelle che sono le sue cause e che risiedono nell’inadeguatezza del sistema politico, prima ancora che nell’arretratezza del sistema economico.
Non si esce dal declino se non si abbatte il sistema di potere secolare che è fatto di un gigantesco quanto pervasivo e collusivo intreccio d’interessi economici, politici e sociali da cui, peraltro, a trarre il massimo vantaggio, in termini di potere e di appropriazione di risorse, è un ristretto gruppo di persone che rappresentano l’élite inamovibile di questo paese. I conti sono presto fatti: la grande industria pubblica, che in un modo o nell’altro è riuscita a mantenere condizioni di monopolio o quasi monopolio grazie alla connivenza di una parte almeno della classe politica, che a sua volta è stata “generosamente” ricompensata (leggi mazzette, favori, privilegi); la maggior parte dell’ampio settore dei servizi pubblici locali, da sempre riserva di caccia dei potentati locali; una parte dell’economia privata, abituata da sempre a vivere in simbiosi con il potere pubblico, scambiando commesse con mazzette e sim. od ottenendo protezioni e privilegi tramite interventi normativi ad hoc o, infine, percependo aiuti, i cosiddetti incentivi, sotto le forme più diverse; una parte consistente del mondo delle professioni, che, sulla base di regole a dir poco medievali, sono in grado di lucrare rendite e privilegi; e, infine, gran parte della classe politica che, grazie all’inamovibilità che è riuscita a procurarsi manipolando le regole del sistema democratico, è in condizione, tramite le leve dell’intervento pubblico, di estorcere rendite da quasi tutto il sistema economico, mantenendo elevato il livello delle risorse la cui destinazione è decisa dall’operatore pubblico ovvero dal personale dirigente dei partiti.
Anche quella parte dinamica e pronta a competere, che pure c’è nell’economia italiana, è stata costretta a pagare un dazio ai “gattopardi”, ai “maestri dell’immobilismo”, rinunciando a esprimere una nuova classe dirigente e a porre le basi di un nuovo sistema-paese. E’ questo, forse, l’aspetto più grave della crisi di sistema che tiene sotto scacco il paese. E’ contro questo blocco che sono andate a sbattere e si sono infrante le prospettive di cambiamento che avrebbero dovuto mettere il sistema Italia in condizione di affrontare le sfide della globalizzazione. Il vecchio modello di economia che ha fatto la storia dell’Italia fino agli anni settanta è morto e sepolto, ma il blocco di potere che con esso si è formato e che gli è sopravvissuto tiene ancora in mano le sorti del paese e, soprattutto, impedisce che si formi un nuovo blocco sociale, capace di portare a compimento la modernizzazione del paese e il passaggio a un modello di economia che renda sostenibile il capitalismo, riproponendo e adeguando al contesto attuale le ragioni del “compromesso socialdemocratico” o, se si preferisce, dell'”economia mista”.
Stiamo vivendo in questi giorni quelli che sono forse gli ultimi spasmi di un corpo che sta ignominiosamente morendo, quello della politica italiana. Travolto dagli scandali, delegittimato dall’incapacità e dall’inefficienza, svuotato di ogni capacità d’iniziativa e, soprattutto, dell’energia necessaria a produrre una svolta capace di rigenerarlo, il sistema dei partiti è come sospeso, in attesa di qualcuno o qualcosa che ne decreti ufficialmente la fine e la esegua. Passaggio non facile, a oggi piuttosto improbabile. E’ tutta qui la drammaticità del momento: un passato che non passa e un futuro che non viene.
La cosa più probabile è anche la meno attraente e, alla lunga, la più dannosa: una deriva senza rotture, ma anche senza prospettive. Il paese continuerà a galleggiare tenuto in vita da tentativi sempre più velleitari di realizzare un impossibile cambiamento di sistema e faticosamente sorretto dalle energie di quella parte del paese che non si arrende, ma che non sa vincere.
L’unica speranza sta in una rigenerazione dal basso, di cui qualche segno si vede; una mobilitazione dal basso di energie nuove, di figure sociali non rappresentate, che sappia investire la classe politica attuale e spingerla ai lati della storia per ritrovare un cammino di crescita, civile e culturale prima ancora che economico. Solo una classe dirigente nuova, giovane e dinamica può concepire il cambio di passo e di paradigma che è necessario per sottrarsi alla morsa micidiale di un declino che è ormai inscritto nel destino che noi stessi abbiamo contribuito a determinare e che solo noi possiamo tentare di rovesciare. C’è un bisogno drammatico e urgente di ricambio della classe dirigente in senso lato, dalla politica alle rappresentanze sociali, agli apparati pubblici, forse anche a una parte del sistema economico. Ma una nuova classe dirigente non emerge e non si afferma nel vuoto di una crisi. Può solo essere sospinta da una convergenza d’interessi fra tutte le forze che puntano sulla modernizzazione del paese e sul rinnovamento del suo modello economico e sociale. Un evento che all’orizzonte ancora non si vede.