La concorrenza che fa bene agli svantaggiati
di Andrea Pezzoli e Alessandra Tonazzi –
Le restrizioni alla concorrenza possano danneggiare i più poveri, per i loro effetti sui beni e servizi di prima necessità. La presenza di rendite monopolistiche distribuite “consociativamente”, tuttavia, complica il quadro e per farvi fronte si rendono necessarie nuove forme di assicurazione sociale costruite valorizzando il legame positivo tra mercato e welfare.
A fronte di un’ampia letteratura empirica che studia i rapporti tra concorrenza (a volte, politica della concorrenza), produttività e crescita, gli effetti della concorrenza sulla diseguaglianza, sulla distribuzione e sull’equità sono stati decisamente meno indagati. Quasi a dare per scontato che la relazione non potesse che essere negativa in ragione dell’ineluttabile trade-off tra efficienza e equità e della natura inerentemente darwiniana del processo competitivo. Come se l’unico interrogativo rilevante in termini di eguaglianza fosse: “che ne sarà dei perdenti”?
Non che l’interrogativo non rilevi. Anzi è centrale e non può essere ignorato almeno da chi ha a cuore l’effettiva praticabilità delle riforme pro-concorrenziali e non si contenta di evocare scolasticamente (e ideologicamente) la rimozione di lacci e lacciuoli…
E’ che l’impatto della concorrenza sull’equità non riguarda solo la sorte di coloro che escono sconfitti dal confronto competitivo. Riguarda i riflessi sulla povertà, sui consumi delle classi di reddito meno abbienti e per molti versi anche il confronto infra-generazionale.
Si tratta di temi che assumono crescente centralità, soprattutto in una fase di persistente crisi economica, e rispetto ai quali iniziano ad essere disponibili interessanti lavori empirici.
Innanzitutto l’impatto sulla povertà. Può risultare persino banale ricordare che nei paesi più poveri qualsiasi politica che riallochi risorse dai settori a produttività sostanzialmente nulla verso attività più produttive – e la politica della concorrenza rientra evidentemente in questa categoria – può determinare effetti significativi in termini di crescita e di allontanamento dalla povertà. Anche in questa prospettiva, a conclusione di uno studio che copriva ben 179 paesi, i dati raccolti consentono a Guttman e Voigt (2014) di sottolineare come l’introduzione di politiche per la concorrenza sia particolarmente raccomandabile per i paesi in via di sviluppo.
In secondo luogo, va detto che (in genere, non sempre) le restrizioni concorrenziali creano rendite per pochi e svantaggi per molti. Tra i molti, i più poveri sono spesso quelli più colpiti. Soprattutto quando le restrizioni, gli incrementi di prezzo e l’abbassamento della qualità riguardano beni e servizi di prima necessità come i prodotti alimentari, farmaceutici ovvero i servizi pubblici.
Uno sguardo che vada al di là dei paesi occidentali può essere di nuovo d’aiuto. L’ evidenza empirica mostra, infatti, che anche nei paesi in via di sviluppo sono diffuse condotte restrittive della concorrenza – e soprattutto cartelli di prezzo – che interessano beni e servizi di prima necessità. Infatti, le autorità di concorrenza hanno “scoperto” numerosi cartelli; ricordiamo i principali: quello della farina (Perù), quello del pollame (Zambia e Perù) quello degli agrumi (Sud Africa) e quello dello zucchero (Honduras) (Jenny et al., World Competition 2006 e Fox, Sothwestern Journal of Law and Trade Policy in the Americas, 2007). Ad essere maggiormente danneggiati dalle distorsioni concorrenziali sono stati i cittadini più poveri dei paesi più poveri (la perdita di “benessere” arrivando sino alla fame!!).
Ma anche nei Paesi più sviluppati, in proporzione, le restrizioni tendono a svantaggiare maggiormente le classi di reddito più basse. Le analisi empiriche relative all’economia messicana (Urzua , 2009) e, sebbene meno recenti, alla Nuova Zelanda e all’Australia (Creedy e Dixon, Department of Economics – Working Papers Series 651, The University of Melbourne, 1998 e Australian Economic Papers, 1999) offrono importanti conferme al riguardo.
La letteratura in materia di distribuzione commerciale, infine, suggerisce come, anche per il nostro Paese, i beneficiari della liberalizzazione del commercio e della grande distribuzione siano soprattutto i percettori di redditi più bassi (Schivardi e Viviano, Economic Journal, 2010). Al netto dell’effetto composizione (non irrilevante sotto il profilo distributivo) anche l’impatto sull’occupazione sembra in genere positivo o al più nullo.
Vi è, poi, un altro aspetto “distributivo” che non può essere ignorato: quello generazionale. L’indubbia relazione positiva tra concorrenza, libertà di ingresso e eguaglianza di opportunità si amplifica di fronte a mercati “incrostati” – si pensi, fatte salve le diverse specificità, a buona parte delle professioni – dove gli incumbent condizionano non poco le regole di accesso e le modalità del confronto competitivo (meglio, di convivenza…). Gli esclusi, incapaci di far valere appieno i propri meriti, appartengono prevalentemente alle generazioni più giovani. Non necessariamente saranno gli ingressi dei giovani professionisti (o dei giovani imprenditori) ad essere i più innovativi. Sta di fatto però che, in assenza di concorrenza e di libertà di entrata, saranno loro a “stare fuori” e questa esclusione non appare particolarmente “equa”, almeno in termini di eguaglianza di opportunità.
La questione si complica quando la rendita monopolistica, invece di essere concentrata in poche mani, viene almeno in parte distribuita “consociativamente” ai lavoratori e ai fornitori. Ovvero quando il deficit di concorrenza porta non ad un eccesso di concentrazione ma, come accade in molti settori del nostro sistema economico, a un eccesso di inefficiente frammentazione (i cosiddetti settori “dispersi”). Nei settori dispersi i prezzi sono alti non perché i costi sono alti; al contrario, i costi sono alti perché i prezzi possono essere alti così da consentire, insieme agli extraprofitti delle imprese più forti, anche la “sopravvivenza” delle imprese che altrimenti sarebbero espulse dal mercato.
I ragionamenti fin qui sviluppati non vengono meno ma, appunto, si complicano. Il rapporto tra concorrenza e equità non si declina più in bianco e nero (la rendita del monopolista redistribuita a favore dei nuovi entranti, giovani e innovativi, e dei consumatori a basso reddito). Compaiono i grigi, la composizione dei “perdenti” è più problematica: la rendita si traduce in inefficienza e gli inefficienti sono piccoli imprenditori, piccoli commercianti e agricoltori protetti, che non riescono a (o non vogliono) fare il salto dimensionale ovvero i dipendenti in esubero nelle società pubbliche controllate dalle amministrazioni locali.
L’erosione della rendita rimane inerentemente “equa”, ma gli effetti sulla distribuzione diventano decisamente più articolati. L’introduzione della concorrenza, infatti, continua ad erodere le rendite monopolistiche, ma fa emergere anche gli extra-costi delle imprese meno efficienti, rendendo insostenibile la loro stessa sopravvivenza. L’”equa” redistribuzione a favore di nuovi entranti più efficienti e innovativi viene comunque realizzata a scapito di soggetti che devono la loro permanenza sul mercato al connubio perverso tra poteri pubblici e poteri privati e a quel capitalismo di relazione ripetutamente denunciato dal Presidente dell’Autorità antitrust, anche recentemente in occasione della presentazione della relazione sull’attività svolta nel 2013. Si tratta, però, molto spesso, di soggetti che non necessariamente appartengono a classi di reddito elevate. In termini squisitamente distributivi, almeno nel breve termine, l’effetto può essere dunque anche “regressivo”. Torna allora, prepotente, l’interrogativo iniziale: che fare dei “perdenti” nei casi in cui l’assenza di concorrenza svolge il ruolo di “ammortizzatore sociale” improprio? Ed è un interrogativo che ci si deve porre anche quando si ha chiara la distinzione tra equità e effetti sulla distribuzione del reddito. La risposta non può che trovarsi nel disegno di nuove istituzioni di assicurazione sociale che siano più coerenti con l’assunzione di scelte innovative e rischiose. Senza la presa d’atto di un legame positivo tra mercato e welfare, le imprese, i lavoratori e i governi continueranno a privilegiare lo status quo, per quanto iniquo, costoso e inefficiente esso possa essere, e lo faranno perché non sono in grado di sopportare il rischio inevitabilmente associato a scelte e riforme più concorrenziali, innovative e rischiose (Grillo, in Concorrenza e crescita in Italia: il lungo periodo, Banca d’Italia, 2014).
Tratto da Eticaeconomia