Le molteplici dimensioni della crisi italiana
di Paolo Ercolani –
È inutile girarci intorno. Tre sono i gradini che potevano condurre il nostro Paese nel baratro. Ed è bene sapere che li abbiamo già percorsi tutti e tre con apparente e beata incoscienza.
Il primo è quello della deriva etico-morale. Un Paese che non è riuscito a trasmettere ai propri cittadini il senso della res publica, quindi del bene collettivo e del patrimonio nazionale; un Paese che non sa creare le condizioni e le dinamiche perché fra i suoi abitanti, nei vari gangli vitali della sfera sociale, possano emergere i più preparati, i più volenterosi, i più meritevoli, proprio perché anche così possa salvaguardarsi e crescere lo stesso bene comune, ebbene questo Paese è già morto. È come una stella di cui ancora vediamo la luce pur sapendo che in realtà si è già spenta, e per questo non potrà continuare a esistere nella rinnovata costellazione. La politica degradata al livello del più bieco affarismo rappresenta soltanto la punta estrema, più clamorosa e visibile, di un iceberg che affonda ben in profondità le sue radici, coinvolgendo tutti quei «cittadini» che i nuovi populismi vorrebbero dipingere come puri e incontaminati. Al punto che anche solo a utilizzare termini come «etica» e «morale» si finisce tacciati di ingenuità, idealismo, utopia. Eppure non sarò io, da filosofo, ad abdicare al dovere umano e sociale di richiamare l’urgenza, e persino la vera e propria emergenza, di un Paese che ha un bisogno estremo di riscoprire, ridisegnare e riorganizzare il proprio impianto etico e morale. Certo, questo passa necessariamente per un serio progetto culturale.
Ma qui arriviamo al secondo gradino. Quello della deriva pedagogico-culturale. Non ci giro intorno neanche in questo caso: per me che svolgo esami universitari con cadenza regolare è fin troppo facile, e penoso, registrare il fatto che, per esempio, sempre più studenti faticano enormemente, e quindi spesso rinunciano, a leggere i libri di testo. Non è soltanto che politiche sciagurate e decennali hanno impoverito e marginalizzato la scuola; né che la commercializzazione selvaggia e incontrollata dell’informazione e della comunicazione in genere ci ha condotto ad avere, per esempio (ma il discorso può essere esteso a tutto il «quarto potere»), una televisione la cui programmazione è diventata via via sempre più scadente, volgare e disinteressata agli effetti culturali (e cognitivi!) che produceva nei confronti dell’opinione pubblica. C’è un terzo dato, perlopiù ignorato ma in realtà gravissimo: la deriva culturale e il processo di commercializzazione sono stati così forti e pervasivi che, in buona sostanza, di fronte alla comparsa della più grande invenzione della contemporaneità, cioè Internet, si è del tutto rinunciato a pensare ad ogni minima forma di educazione critica al mezzo e di resistenza «umanistica» rispetto alle degradazioni che il mezzo stesso produceva. Soprattutto nei confronti delle giovanissime generazioni. È significativo il fatto che a nessuno mai verrebbe in mente di far affrontare la vita a un bambino, senza che la scuola gli abbia potuto fornire alcuni strumenti. Eppure, per la vita virtuale (e sappiamo bene che virtuale non significa affatto irreale, forse tutt’altro) si è coscientemente e deliberatamente rinunciato ad ogni tentativo di educare e formare menti che, durante la propria crescita, sapessero utilizzare questi mezzi straordinari mantenendo autonomia di giudizio, capacità critica, caratteristiche specifiche dell’essere umano come, per esempio, la lettura approfondita, lenta, in grado di sedimentarsi e produrre conoscenza durevole nell’individuo. Ignorare tutto ciò ha comportato la realizzazione di quello che Kurt Vonnegut aveva descritto nel suo romanzo visionario del 1952 (Player Piano), laddove descriveva una prima rivoluzione che svalutava il «lavoro muscolare» (agricoltori), una seconda che sviliva quello «ordinario» (artigiani), mentre alla fine ci si trovava di fronte alla terza rivoluzione, quella in grado di rendere superfluo il pensiero umano, cioè il «vero lavoro intellettuale». A chi ha giovato tutto ciò? Chi, con molta probabilità e con complicità evidenti da parte di una politica indegna di questo nome, ha beneficiato di tutto ciò e in qualche modo se ne è fatto artefice?
Qui arriviamo al terzo gradino, che al tempo stesso rappresenta il filo rosso di collegamento con gli altri due: quello di un Paese in cui si è consentito all’economia di divenire la scienza dominante, il sistema di valori più forte e indiscutibile, la dimensione a cui votare tutto l’umano vivere e tutti gli sforzi sociali. All’economia servono produttori e consumatori, non certo individui critici e consapevoli, forniti di un bagaglio etico-morale che permetta loro di cogliere la grande ricchezza della vita umana al di là dei numeri, del profitto e delle logiche quantitative in genere. Non ha destato lo scalpore che avrebbe meritato, sentire Mario Monti che, da capo del governo, dichiarava impunemente di trovarsi lì per soddisfare i mercati (invece che la qualità della vita dei cittadini che si trovava a guidare).
Il nostro Paese questi gradini li ha scesi tutti e tre, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Non c’è e non ci sarà articolo 18, riforma del lavoro e della giustizia, né riforma costituzionale o fiscale che tenga, è bene sapere che non ci sarà riforma in assoluto che potrà risollevarci se non sapremo risalire questi tre gradini, provando a ricostruire l’impianto etico-morale, educativo e politico del nostro Paese. Una politica degna di questo nome dovrà saper elaborare un programma fattivo e concreto in grado di affrontare il baratro in cui ci hanno condotto queste tre derive. Dovrà saperlo fare in un ottica anche europea, per ovvie ragioni, laddove l’Europa non potrà essere soltanto una fantomatica entità finanziaria che ci impone un rigore aritmetico e quantitativo, ma anche un grande progetto di costituzione di una realtà in grado di tutelare la qualità, il benessere e la specificità umana dei suoi cittadini. Una teoria che non trova sbocchi sul terreno della realtà sociale è sterile tanto quanto una politica che non sa darsi un progetto teorico e una mappa programmatica risulta cieca, inefficace, incapace di incidere su un periodo più ampio. Possono sembrare ragionamenti idealistici o persino utopistici, ma se per un attimo soltanto pensiamo che essi rappresentano tutto ciò che da troppo tempo non facciamo più, e di contro vediamo lo stato in cui ci siamo ridotti, beh, allora ci rendiamo conto che se di utopia si tratta, è un’utopia quanto mai necessaria. Il coraggio più grande risiede proprio nella forza e nella volontà di rispolverare un progetto apparentemente desueto e idealistico. Qui e ora!
Tratto da il Manifesto