di Aldo Bonomi –
Ancora il tema, cruciale oggi sia sul piano sociale che su quello politico, del lavoro autonomo, del lavoro professionale. Per comprenderne le trasformazioni, per vedere le nuove e vecchie forne di lavoro che ritornano, secondo Aldo Bonomi, è necessario, in primo luogo, abbandonare l’ottica fordista della fabbrica, del lacvoro a tempo determinato, con cui ancora si tende a guardare il mondo de lavoro, a partire dal sindacato. Per poter tornare a chiedersi qual è i soggetto propulsivo della trasformazione sociale.
Sono profondamente convinto che per comprendere le trasformazioni del lavoro professionale oggi il punto di partenza obbligato è una riflessione più generale su quella che chiamo la “scheggiatura” del diamante del lavoro dentro la trasformazione postfordista.
Per questo non mi limiterò a fare un ragionamento specifico sulle forme di lavoro che riguardano i lavoratori della conoscenza ma, partendo dalle ricerche che ho realizzato sui due grandi poli metropolitani del paese, Milano e Roma, cercherò di inquadrare la trasformazione a 360°.
Andiamo per punti.
Punto primo. Sono convinto che nella fase postfordista, oggi, noi ci troviamo a confrontarci con un tema che rimanda “all’attualità dell’inattuale”. Io credo che oggi siano attuali forme di lavoro che noi ritenevamo completamente superate da una giuridicizzazione e formalizzazione del rapporto di lavoro da parte dello Stato centrale in ciò che siamo sempre stati abituati a considerare l’essenza della modernità come civiltà del lavoro. Oggi ci ritroviamo invece a discutere e a negoziare forme di impostazione giuridica del lavoro o dei lavori, dentro i quali il problema del tumultuoso cambiamento non viene assolutamente recepito. E’ una convinzione che traggo dalla rilettura di un autore come Franco Rodano, che per i classici Ricciardi scrisse Lezioni su servo e signore, cioè la storia del lavoro.
Procedendo schematicamente possiamo dire che sta riapparendo in forma drammatica la schiavitù. Certo, uno potrebbe chiedersi cosa centra la “schiavitù” con le forme di lavoro dell’intrattenimento, dell’eventologia, della comunicazione o delle professioni liberali; cosa centra con il fenomeno delle partite IVA o dei lavoratori della conoscenza. A ben vedere, invece, si capisce che proprio queste neo-forme di lavoro servile sono quelle che riappaiono soprattutto nel tessuto urbano e metropolitano, proprio laddove è più alta la concentrazione di lavoro della conoscenza. E’ un’esplosione di lavori servili che riguarda in parte la popolazione migrante, ma non solo. Quanti sono i giovani che sono dentro a questo circuito del lavoro servile? Si può ragionare delle badanti, eccetera, però quanti sono gli avviati al lavoro dentro il circuito dei servizi così detti dequalificati che spesso sconfinano con i lavori servili? Qual è l’incidenza nel lavoro della conoscenza di quello che con un altro eufemismo l’Istat chiama lavoro volontario? Io, che ho osservato questo mondo, ho rilevato la presenza di due forme di organizzazione. La prima: i lavori servili che riguardano gli immigrati tendono ad auto-organizzarsi attraverso forme comunitarie di cui noi non sappiamo nulla. Ci sono forme sommerse di comunità etniche dentro le quali ci si scambia il lavoro e molto spesso i bacini di reclutamento di queste forme del lavoro servile sono quelli che per noi sono soggetti meritevoli. La Caritas e i Servizi Acli sono i luoghi in cui si va per avere la badante in maniera informale. Il mediatore in questo caso è quella che io chiamo comunità di cura, che pensa e fa un’opera meritevole, perché mette insieme domanda e offerta in una totale informalità. Questo dunque è il primo dato. Abbiamo fenomenologie comunitarie completamente nuove, che non sono il comunitarismo e mutualismo dell’Ottocento, dell’auto – organizzazione che c’era agli albori della modernità, queste sono forme completamente nuove, con codici completamente nuovi.
Secondo punto. Riappare la servitù della gleba o Le anime morte di Gogol ed è quel ciclo che noi conosciamo bene che rimanda alla subfornitura. Faccio degli esempi banali: se uno fa ricerca e va tra i famosi artigiani e le piccole imprese, partendo dal paradigma che il primo concetto per cui tu sei padrone è il possesso dei beni di produzione, beh spesso si trovano più proletaroidi che utilizzano macchine e strutture di proprietà del committente che non proprie. Problema toccato dall’imminente riforma del mercato del lavoro. E questo problema tocca il sistema delle rappresentanze tradizionali CNA, Confartigianato, Rete Imprese Italia, commercianti, che hanno perso i rapporti con il ciclo terminale della subfornitura. Diciamolo che uno dei problemi che abbiamo è proprio la solitudine dei piccoli. Questo è insieme alla servitù della gleba, alle anime morte, nella flessibilità del capitalismo moderno che esternalizza fino all’ultima parte, fino al lavoro nero, il ciclo produttivo e così abbiamo un problema completamente aperto. Queste figure sono lavoratori autonomi addirittura di pre-prima generazione, altro che seconda generazione.
Terzo punto. Arriviamo al terreno del lavoro della conoscenza e qui troviamo quella che possiamo definire la terza attualità dell’inattuale, ossia il riapparire delle gilde e delle corporazioni. Oggi esistono in Italia ben duecentosettanta associazioni professionali. Si va dai pranoterapeuti ai maghi, con tutte le nuove professioni dell’intrattenimento, dell’eventologia, delle industrie della comunicazione eccetera. Quello che appare è che i mezzi di produzione che tu metti al lavoro, non sono il capannone e l’impresa, ma la tua capacità di aggiornarti continuamente in un meccanismo di iperflessibilità; quindi hai queste dimensioni di massa che stanno dentro il terziario e la terziarizzazione, in cui il problema dell’organizzazione se la prende – almeno a Milano questo è chiarissimo – con gli ordini precostituiti, cioè gli ordini del lavoro autonomo e professionale del Novecento, l’ordine delle professioni liberali, che stanno bene attenti ad avere l’egemonia, a non ammettere nulla al di fuori di loro. C’è dunque un pullulare di attività, in parte corporativa, in parte di auto-organizzazione e in parte di sopravvivenza, perché dentro le auto-organizzazioni sono necessari anche saperi, competenze e reti di relazioni per sopravvivere nel mercato. La corporazione è un meccanismo “difensivo” e non solo di arroganza, dove ciascuno vuole fare la sua piccola Gilda, perché vuol contare di più o vuole essere “visibile” in Camera di Commercio o altro, perché governano queste reti informali in cui si scambiano mercato, formazione e professionalità.
Quarto punto. C’è poi il lavoro normato e salariato, quello che Gallino definisce il buon lavoro. Oggi la logica sindacale è quella di ricondurre il grande magma dei lavori a quest’unica forma: è come se la composizione sociale fosse completamente esplosa e noi siamo lì a raccogliere con il secchiello il mare. Questo è il punto e ogni volta che c’è una negoziazione la parola chiave cui bisogna ricondurre il tutto è il lavoro normato e salariato, quando sappiamo benissimo che non si può ricondurre al lavoro normato e salariato a tempo indeterminato la schiavitù, il lavoro servile, l’organizzazione di comunità, la solitudine dei piccoli, l’auto–impresa che è anche auto-sfruttamento e le Gilde. Lo sappiamo, quindi dobbiamo uscire da questa retorica. Se il quadro è questo, il problema che rimane sul terreno e di cui dobbiamo discutere è se il “Quinto Stato”, per usare una metafora che tenta di unificare la rappresentazione della società dei lavori, costituisca il nuovo quadro di Pelizza da Volpedo? È questa la moltitudine, per usare una terminologia ambivalente? Se abbiamo di fronte questo grande mutamento, è giusto – e ho dei dubbi rispetto a questo – che noi individuiamo il soggetto propulsivo. Qual è il soggetto propulsivo? Io sono dell’opinione che il primo vero problema è dove si trova la fabbrica di tutte queste cose, usando un termine molto fordista. La fabbrica oggi è il territorio, la dimensione metropolitana. Se qualcuno pensa di governare Milano e Roma – e sono cose che andrebbero dette ai sindaci – la questione è questa, perché a Milano i temi sono questi. Perché la grande fabbrica in cui avviene questa scomposizione è soprattutto sul territorio e qui ha ragione Richard Florida perché le problematiche di questo genere si concentrano nelle aree metropolitane. Altro è come questa scomposizione degli avanzi del lavoro “precipita” nel contado perché nel contado come forma egemone hai solo il lavoro dell’impresa, ma nelle aree metropolitane sono presenti tutte queste forme. Il territorio è la grande fabbrica.
Oggi io sono arrivato qui, nella riflessione e discussione. Il problema adesso è come ricostruire un ragionamento. La crisi costringe ad avere coscienza di sé dentro alla transizione e quindi credo che questa sia una tematica all’ordine del giorno.