L’antinegazionismo come rimedio alle battute “infelici”
di Luigi Della Luna Maggio –
La recente dichiarazione di Berlusconi sull’operato di Mussolini getta nella contesa elettorale un argomento assai spinoso per la storia repubblicana italiana. Senza pretendere di ritagliare una parte buona ed una cattiva, la condanna del regime fascista non può passare solo ed esclusivamente da una battaglia culturale che impegna prima di tutto le forze politiche che, sin dal dopoguerra, hanno posto le basi per lo sviluppo e il consolidamento della democrazia in Italia.
Certamente, è necessario che i temi dell’inclusione sociale e del rispetto delle minoranze entrino a far parte del tessuto culturale del nostro Paese a prescindere dalle forze politiche che si succedono alla guida del Governo.
Allo stesso tempo, però si pone una questione politica, e più precisamente di diritto. Le tesi negazioniste e revisioniste, quelle che intendono, cioè, giustificare o ribaltare in un modo o nell’altro i giudizi e i risultati netti della storia europea nella prima metà del novecento (ovvero, l’espansione territoriale dei regimi democratici e la sconfitta dei totalitarismi) trovano in Italia ancora terreno fertile e ciò perché probabilmente la storia del nostro Paese non è pienamente condivisa. Nel caso specifico, e cioè in merito alle parole di Berlusconi secondo le quali, fatta eccezione per le leggi razziali emanate nel ’38 il governo fascista “per tanti altri versi aveva fatto bene”, mette in evidenza una enorme lacuna del nostro sistema politico: una scarsa memoria (storica) condivisa. La responsabilità del sistema politico starebbe, cioè, nel fatto che un po’ a fatica e sempre con qualche eccezione e qualche “ma” di troppo, si è arrivati alla condanna del regime fascista. Lo ha ricordato anche un ex ministro della Repubblica, Brunetta, che commentando la battuta di Berlusconi su Mussolini ha detto che le parole dell’ex Presidente del Consiglio sono condivise da molti italiani, definendolo addirittura come un “pensiero comune italiano”. Tutto ciò contribuisce a fornire una visione edulcorata del regime fascista che sottovaluta le responsabilità politiche. La XII disposizione transitoria della Costituzione certamente aiuta a chiarire i termini del dibattito laddove vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. Ma ciò, evidentemente, non è bastato.
Ciò che manca, infatti, in Italia è una legge che nel nostro ordinamento dichiari e accerti le responsabilità politiche degli anni del ventennio fascista. La c.d. legge sulla Memoria emanata nel luglio del 2000 riconosce la data del 27 gennaio (data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz) quale giorno della Memoria al fine di ricordare il dramma della Shoah, delle leggi razziali e della persecuzione italiana dei cittadini ebrei deportati nei campi di concentramento nazisti. Come ha puntualmente sottolineato Daniela Bifulco, docente di diritto pubblico, nel suo recente lavoro “Negare l’evidenza” , manca in Italia una puntuale legge antinegazionista; piuttosto, il legislatore italiano ha preferito istituire varie giornate della memoria “prediligendo l’aspetto simbolico e commemorativo” come nel caso della legge del 2000 sulla memoria. Essa, infatti, è costruita essenzialmente sul paradigma della memoria piuttosto che su quello della responsabilità, dal momento che la legge “menziona le vittime, ma non spende una parola sui responsabili”. In questo modo, il legislatore ha preferito evitare di prendere una posizione (prima di tutto politica) sull’esperienza delle leggi razziali e sulle persecuzioni. Basti dare uno sguardo al dibattito parlamentare che anticipò l’approvazione della legge sulla Memoria. Mentre alla Camera avanzò l’ipotesi di riferirsi alla Shoah quale evento unico nella storia dell’umanità, in Senato, invece, prevalse una posizione che intendeva riferirsi a tutte le vittime delle esperienze dei regimi totalitari. Ne uscì, quindi, una legge, quella del 2000, che rinuncia all’unicità della Shoah e non accerta le responsabilità politiche del governo di Mussolini nello sterminio degli ebrei.
In giro per l’Europa le cose sono andate diversamente. E ciò non perché i tentativi da parte dei movimenti dell’ultra destra di riaccendere la fiamma del nazionalismo (con espliciti riferimenti alle esperienze nazista e fascista) siano state più blande. Come sottolinea la Bifulco, altri ordinamenti giuridici considerano le leggi sulla memoria non solo dal punto di vista commemorativo. E’ il caso della legge francese del 2000 con la quale il legislatore ha voluto riferirsi alla memoria delle vittime dei crimini razzisti e antisemiti; in Spagna, nel 2007 è stata emanata una legge che prevede anche alcune forme di risarcimento in favore delle vittime della guerra civile. In quest’ultimo caso, è evidente come l’ordinamento spagnolo abbia voluto ristabilire una connessione tra storia (il passato franchista e la dittatura) e diritto (la forza della legge di commemorare e risarcire le vittime) .
E’ chiaro che ogni legge il cui obiettivo è quello di restituire alle vittime di un massacro o di un genocidio di massa (quale è stata la Shoah) un’autentica dignità storica, solleva anche un problema in termini di libera manifestazione del pensiero. Il compito della legge, però, non è quello di imporre una memoria condivisa né quello di cristallizzare gli eventi storici; piuttosto, è quello di chiarire le responsabilità politiche e porre rimedi efficaci (la democrazia è il rimedio per eccellenza agli autoritarismi) di fronte al dilagare dei tentativi di revisione di alcuni passaggi fondamentali della storia italiana.