di Lapo Berti –
Si può tessere l’elogio della depressione, di questo male che afferra l’individuo, ne spolpa l’identità, lo svuota della voglia di vivere e lo abbandona come un relitto ai margini della società? Si può attribuire un valore positivo a un’esperienza, una condizione, che tutti ci siamo abituati a considerare come negativa? La depressione può essere addirittura fonte di speranza? Secondo Aldo Bonomi e Eugenio Borgna sì. In essa ci sono “le tracce da cui ripartire in una comunità di destino che sussurri, tenendoci per mano, ‘depressi di tutto il mondo unitevi’, per dare vita ad un moto di riscatto. La depressione è, dunque, il terreno fertile su cui può rinascere un futuro?
Si può tessere l’elogio della depressione, di questo male che afferra l’individuo, ne spolpa l’identità, lo svuota della voglia di vivere e lo abbandona come un relitto ai margini della società? Si può tessere l’elogio di questa che è non una “malattia mentale” come generalmente la si definisce, ma, propriamente e fino in fondo, una “malattia sociale”, un malessere che si insinua nella società e mette a nudo il deperimento del legame sociale, la capacità inclusiva dello stare insieme, l’incapacità che cresce di riconoscersi in una comunità e di riconoscere se stessi come membri di quella comunità? Si può attribuire un valore positivo a un’esperienza, una condizione, che tutti ci siamo abituati a considerare come negativa, come la negazione suprema cui soggiace l’individuo cui il vivere non ha più nulla da dire ed è, anzi, fonte esclusiva di sofferenza fino al limite della sopportabilità?
Elogio della depressione
Non è una provocazione e non è nemmeno una battuta. E’ l’oggetto di una riflessione a tutto tondo sulle dinamiche delle società in cui viviamo nella quale si ritrovano, intrecciando i loro saperi e, più ancora le loro sensibilità, un sociologo militante, Aldo Bonomi, e uno psichiatra altrettanto militante, Eugenio Borgna(*). Il primo ci mostra quanto si sia dilatato, sotto la pressione della modernità globalizzata, il territorio della depressione all’interno dei nostri spazi sociali. Il secondo ci conduce per mano dentro i meandri della depressione per disvelarci la domanda pressante di riconoscimento e di solidarietà che essi nascondono. Dal loro dialogare emerge una figura paradossale della depressione che è fonte di speranza, invece che di disperazione. Nella depressione, come ce la raccontano Bonomi e Borgna, c’è potenzialmente il riconoscimento di una condizione che può essere condivisa e che può, quindi, dare origine a un moto di riscatto. Ci sono, come spera Bonomi, “le tracce da cui ripartire in una comunità di destino che sussurri, tenendoci per mano, ‘depressi di tutto il mondo unitevi'”. Perché forse, ripartendo dalla condivisione di un destino, “si può fare esodo, si può tutti andare a stare un po’ meglio nella diaspora verso un altrove“. Un altrove, beninteso, che in questo momento non c’è, ma di cui s’intravedono i tratti essenziali, riassumibili nel recupero di una dimensione di comunità senza la quale l’individuo non è, non riesce a esprimere la sua individuale personalità, e si riduce a “monade senza porte e senza finestre”, come dice Borgna. La depressione è il terreno fertile su cui può rinascere un futuro. Perché, ci ammonisce Borgna, “conoscere la depressione, i suoi modi di essere, averla vissuta almeno una volta in vita, dilata le personali possibilità di dialogo e di ascolto: di immedesimazione nei mondi feriti dalla tristezza e dalla disperazione. Si creano così, solidarietà che oltrepassano le ideologie e gli egoismi individuali; e che concorrono nel fondare una comunità di destino”. E ancora: “le emozioni, l’insieme delle emozioni che si condensano nell’esperienza depressiva, si costituiscono come un baluardo nei riguardi di una concezione della vita sottratta a quello slancio comunitario che ci mette in comunicazione, e in contatto, con il mondo degli altri”.
La speranza
E’ la speranza che getta un ponte fra la depressione e la felicità possibile, è la speranza che sottrae la depressione ai suoi esiti distruttivi (il suicidio) e la trasforma in un patrimonio emozionale, riconsegnando l’individuo alla ricerca di quella felicità che gli è dovuta da quando si è separato dal suo destino animale. Con le indimenticabili parole di una giovane paziente, divorata dalla depressione, che Borgna cita a conclusione del suo intervento: “Ieri mi sentivo dentro una speranza non motivata…Avevo, solo, nel cuore una speranza: la speranza… Una speranza che conteneva il futuro… Il futuro senza fissare orizzonti: una situazione aperta. La speranza, che si apriva; ed era come una nuova vita”. La speranza e basta, senza contenuti specifici. La speranza come capacità di guardare al futuro come a un orizzonte di possibilità che sono lì per me. E’ questo il varco che bisogna tentare di riaprire nella tenebra incombente di una modernità che ci aveva promesso tutto e che tutto ora ci sta togliendo. E lo si può fare solo in una comunità di destino. “Depressi di tutto il mondo unitevi”, appunto.
La felicità perduta
La depressione è l’altra faccia della felicità perduta(**). La felicità perduta, in realtà, non è mai esistita. Almeno in quel contesto di relazioni, di aspirazioni, di sofferenze, che chiamiamo modernità. La felicità perduta è un benchmark, un sito immaginario in cui collochiamo quello che vorremmo essere, una condizione che attribuiamo al “mondo che abbiamo perduto”, perché oggi non sappiamo produrla nel mentre ne sentiamo più acutamente la mancanza. Eppure, la felicità perduta connota un mondo di relazioni in cui l’individuo si percepisce e si costruisce nello specchio degli altri, come membro di una comunità che lo accoglie e lo protegge e che lui ricambia impegnandosi nella pratica della virtù, che è l’unica garanzia possibile per il bene di tutti. C’è un’idea di felicità che chiamiamo antica perché è lontana dalla felicità che ci vorrebbe imporre il modello produttivo dell’iperconsumo, in cui siamo tutti trasformati in macchine che macinano desideri, per lo più prodotti altrove, e consumano, lavorano per consumare. E’ la felicità di chi fa i conti con se stesso, con il suo essere nel mondo e con il suo esistere con gli altri. Una felicità che ha la sua misura in se stessa, nella capacità che l’individuo ha di realizzare un progetto di vita dotato di senso, e non è, quindi, misurata dalla quantità di cose acquistate che occupano il nostro spazio esistenziale. Forse, come suggeriscono Bonomi e Borgna, il cammino attraverso la depressione può aiutarci a ritrovarla, in una comunità di destino che unisce colui che la subisce e ne sperimenta il terribile senso di deprivazione e colui che si rende capace di guardarla e di coglierne il significato esistenziale e sociale.
(*) Aldo Bonomi e Eugenio Borgna, Elogio della depressione, Einaudi, Torino 2011
(**) Lapo Berti, La felicità perduta. Economia e ricerca del benessere, LUISS University Press, Roma 2010.