A caccia dei segnali deboli per battere la crisi
di Aldo Bonomi –
È stato un anno, quello che è passato, di un rumoroso silenzio. Rumoroso perché mai come nel 2012, da quando la crisi è cominciata, dall’Europa al governo (merito e stigma di Mario Monti), dai gradi giornali all’approfondimento televisivo, la crisi dall’alto ha imposto la coscienza di sé a “l’uomo senza qualità” producendo “l’uomo indebitato”. Silenzio della molteplicità dei soggetti.
Non è facile iniziar l’anno in tempi dominati da passioni tristi e retoriche della “grande contrazione”. Producono un’antropologia che partendo dallo Stato indebitato fa apparire “l’uomo indebitato” come soggetto unico. Credo sia questa la vera questione sociale, per stare al messaggio di fine anno del presidente della Repubblica. Hai voglia a scavare nei microcosmi o a rivisitare distretti produttivi, cercando, come insegna Arnaldo Bagnasco, tracce di comunità. O alzare lo sguardo dal territorio verso la dimensione meso delle Regioni viaggiando nell’Italia della resilienza. O guardare al mutamento delle città, da quelle metropolitane alle cento città empatiche con lo sviluppo territoriale, tracciando filamenti di smart city che si rapportano con la green economy che verrà. Avverti che il racconto è difficile. Prigioniero del pendolo della denuncia, dell’aumento delle povertà, dei suicidi di quelli che non hanno retto sino alle lotte estreme degli operai sulle gru e nelle miniere, e del rendere visibili i casi di successo, dalle medie imprese che vanno bene nell’export alle start up dei giovani che ce la fanno.
È stato un anno, quello che è passato, di un rumoroso silenzio. Rumoroso perché mai come nel 2012, da quando la crisi è cominciata, dall’Europa al governo (merito e stigma di Mario Monti), dai gradi giornali all’approfondimento televisivo, la crisi dall’alto ha imposto la coscienza di sé a “l’uomo senza qualità” producendo “l’uomo indebitato”. Silenzio della molteplicità dei soggetti. Dalla politica alle parti sociali coinvolte nella responsabilità di un drammatico attraversamento, sino a quelle che un tempo chiamavamo classi: la borghesia, il ceto medio, la classe operaia… È come se fosse rovesciata, per me che studio i fenomeni sociali, la logica del racconto. Invece di raccontare ciò che sta in basso che chiede inclusione, si racconta ciò che dall’alto impone austerità e rigore.
Per questo auspico per i miei microcosmi che l’anno che verrà sia l’anno della parola che si fa racconto della molteplicità dei soggetti. Se la crisi è una metamorfosi, come hanno capito anche quelli che hanno fatto finta di non sentire il rumore che viene dall’alto, invece di un ammutolito silenzio necessita racconto della nostra mutazione. Iniziando dalla politica, ci aiutano le elezioni ormai prossime. Sono tra quelli che ritiene auspicabile stressare la politica, che poi è il sale della democrazia. Come ci ha ricordato ogni domenica Guido Rossi con i suoi editoriali su questo giornale. Sulla scia di quel grande del 900, Karl Polanyi che, nella metamorfosi di allora, che lui denominò la grande transizione, aveva sempre raccomandato di mettere in mezzo al rapporto tra politica e economia il racconto della società.
Qualcosa si è mosso nell’anno che è passato. Dalle aggregazioni post ideologiche nel mondo dell’impresa diffusa e del commercio a quelle della cooperazione sino alla riflessione sulla rappresentanza di impresa, del capitalismo delle reti e degli ordini professionali. Vi sono state divisioni e dibattito aspro nel mondo del sindacato. Tutte fibrillazioni che sono segno della mutazione della composizione sociale e della sua soggettività. È infatti chiaro a tutti che lo schema delle rappresentanze del 900 non contiene più, come vasi comunicanti, la moltitudine sociale dei lavori e del fare impresa.
Temo che, anche in questo caso, non basteranno le liberalizzazioni dall’alto, né la regolamentazione per legge della rappresentanza. Nei trenta anni del fordismo, che Hobsbawm ha definito i trenta gloriosi, nella triade capitale-lavoro-stato si delegavano ai partiti le passioni (le ideologie), gli interessi alle rappresentanze e ciò che era ritenuto “in comune” allo Stato. Poi ci sono stati i venti anni della globalizzazione finanziaria, dell’individualismo proprietario, passando dai lavoratori ai clienti e dal lavoro al consumo. La belle époque prima della decade malefica. Iniziata con la bolla della new economy. Poi quella dei subprime e dei derivati, il tutto finito nella crisi.
Qui siamo e qui ci tocca mutare. Devo la definizione “decade malefica” al libro “La furia dei cervelli”. Che scava nel disagio delle nuove generazioni messe al lavoro, che racconta di quel quinto stato senza rappresentanza composto da precari, migranti e i nuovi lavoratori della conoscenza. Quella nebulosa indistinta che cataloghiamo come giovani ed extracomunitari segnalandone il drammatico tasso di disoccupazione che ormai supera il 35% e i problemi di cittadinanza negata. Sono loro i primi soggetti di cui auspico una presa di parola e, perché no, una domanda sociale forte che dia nuova linfa a una stanca rappresentanza. Vi sono segnali deboli ma diffusi di ricambio nell’agire politico, di giovani che si fanno avanti usando sia la rete che le primarie e segnali di nuove forme di rappresentanza che si pongono il tema dei beni comuni nella transizione.
Anche nel fare impresa è oramai chiaro che non solo è finito il fordismo, ma muta anche il post fordismo all’italiana la cui componente fondamentale è stata il capitalismo molecolare dell’impresa diffusa. Muta in piattaforme produttive in filiera con medie imprese internazionalizzate e si fa contaminare da saperi necessari a produrre per competere. La selezione è feroce, tanti sono quelli che soccombono. Si cerca di realizzare la green economy mettendo assieme le tre T della new economy, tecnologia talento tolleranza, con le tre T di uno sviluppo sostenibile che tenga conto della terra, del territorio e della tenuta dell’ecosistema. Tenendo insieme una società che la crisi del wellfare pubblico e dei bilanci statali spinge ad una scelta: o approfondire il ruolo dell’impresa che opera nel sociale, oppure promuovere soggetti di un nuovo mutualismo. Riappare come una parola ipermoderna il cooperare e alcuni usano l’ossimoro coopcapitalismo. Infine ci sono luoghi nella crisi di ciò che era la borghesia di formazione e dibattito delle èlite. Anche loro in metamorfosi sulle tracce di una neoborghesia adeguata ai tempi della crisi e alla riflessione su come uscirne. Al racconto di questi segnali deboli, al loro prender parola dedicherò i microcosmi dell’anno che viene avanti.