La fata della produttività
di Luisa Corazza –
L’Accordo sulla produttività siglato nei giorni scorsi a Palazzo Chigi si pone in linea di continuità con un processo evolutivo da tempo intrapreso dalle relazioni industriali italiane. Eppure, è un accordo nuovo, che ha suscitato per questo entusiasmi e aspre critiche, fino a condurre alla – ormai quasi consueta – mancata firma di CIGL.
E’ nuovo prima di tutto lo stile con cui l’Accordo presenta il tema della produttività: sembra leggersi tra le righe del documento la necessità di collocare il problema del lavoro italiano in un contesto più ampio, in cui la ricerca di un diverso modo di organizzare il lavoro rappresenta un problema centrale da risolvere per l’economia italiana. Tale constatazione non è certo una novità. Ha tuttavia un sapore nuovo il tono con cui la questione è posta come centrale del documento, il che vale a differenziare tali premesse dai consueti preamboli che nel tempo hanno anticipato i contenuti di accordi e protocolli.
Ma sono nuovi, in realtà, anche i contenuti di queste “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”, che spingono la relazioni industriali italiane verso una linea ben precisa: quella del primato della contrattazione collettiva decentrata nella determinazione delle regole del lavoro.
Gli snodi di maggiore novità introdotti da questo recente Accordo sono infatti l’affermazione, da un lato, del primato dell’autonomia sull’eteronomia, ovvero delle regole fissate dalla contrattazione collettiva su quelle fissate dalla legge (che fa ritrovare all’autonomia collettiva una centralità sconosciuta nell’era Berlusconi), e, d’altro lato, la definitiva conferma della centralità della contrattazione collettiva di II livello. Quest’ultima linea, nell’accordare spazi sempre più ampi alla contrattazione decentrata, si inserisce in un trend che da tempo ispira le relazioni industriali in Italia (dall’Accordo a firma separata del 2009, a quello a firma unitaria del 2011) e in molti altri paesi d’Europa (in primis Germania, ma anche Spagna e Francia).
Torna, quindi, una rinnovata fiducia nel contratto collettivo e, di conseguenza, nella dialettica sindacale come sede privilegiata per trovare i giusti compromessi tra “tutela dei diritti fondamentali” dei lavoratori ed esigenze di rinnovamento delle attività produttive. Tuttavia, il recupero della centralità del contratto collettivo quale strumento di governo delle organizzazioni imprenditoriali e di gestione della flessibilità non determina affatto un ritorno all’autonomia collettiva tipica degli anni ’80 e ’90: il contratto collettivo cui si riferiscono oggi le parti sociali è soprattutto il contratto collettivo decentrato, e dunque, laddove esiste, il contratto collettivo aziendale. Ciò spiega in gran parte le resistenze della CGIL, che da sempre manifesta preoccupazione nei confronti di un eccessivo slittamento del baricentro delle relazioni industriali verso la sede aziendale.
E’ difficile dire a priori se l’obiettivo di costruire “un modello contrattuale nel quale il contratto collettivo nazionale di lavoro abbia la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori, ovunque impiegati nel territorio nazionale” risulterà confermato nella prassi o se, piuttosto, con questo Accordo non si apra definitivamente il varco per una differenziazione dei trattamenti economici sempre più marcata, facendo scivolare il nostro sistema di relazioni industriali verso uno schema di “decentramento non organizzato”. Ovviamente un tale rischio c’è, dato che l’espandersi di contenuti della contrattazione collettiva affidati al secondo livello della contrattazione conduce inevitabilmente al tramonto di meccanismi di indicizzazione automatica delle retribuzioni e di disciplina uniforme del rapporto di lavoro. E’ necessario però interrogarsi su quali siano stati i risultati, in termini di dinamiche salariali, del modello “accentrato” che nella sostanza ha prevalso in Italia negli ultimi venti anni: certo il rischio di un’eccessiva frammentazione è stato rintuzzato, ma con quali conseguenze sul tenore delle retribuzioni reali? La risposta è nelle tabelle di comparazione dei livelli del reddito medio da lavoro dipendente in ambito europeo. V’è da chiedersi allora se, con queste performances, la preoccupazione per il rischio di un’eccessiva differenziazione dei livelli retributivi debba ancora svolgere un ruolo prioritario, o se le priorità non siano piuttosto altre, a partire, appunto, dal grave deficit di produttività che affligge l’Italia (v. i recenti dati ISTAT).
Certo la produttività non dipende solo dal fattore lavoro, ma riposa anche su una serie di elementi esogeni (aggravi burocratici, infrastrutture, illegalità, istruzione, etc.) su cui la contrattazione collettiva non può incidere. E’ indubbio tuttavia che l’organizzazione del lavoro costituisca uno degli snodi centrali per migliorare la produttività; e nessuno pensa più, neppure chi ha criticato i risultati di questo accordo1, che per rinnovare l’organizzazione produttiva si possa ancora procedere con regole uniformi per tutti, come quelle dettate dal contratto collettivo nazionale.
E’ sufficiente, in proposito, fare alcuni esempi concreti: il tema delle mansioni e quello della introduzione di nuove tecnologie. Quanto al primo, da tempo si invoca un rinnovamento della contrattazione collettiva sotto il profilo delle mansioni e dell’organizzazione del lavoro: questo accordo sancisce, forse in via definitiva, quello che ormai da qualche anno aleggiava nel mondo delle relazioni industriali, ovvero che tale rinnovamento non può essere lo stesso per tutti ma deve aderire, in modo quasi “sartoriale” alle esigenze specifiche dell’impresa. Quanto al tema delle nuove tecnologie, che la disciplina vigente, legata alla presenza di “impianti audiovisivi” nei luoghi fisici del lavoro, risulti obsoleta oggi che siamo nell’era di internet non è cosa difficile da dimostrare (essa è infatti stata scritta nel 1970, quando la telecamera era lo strumento di controllo della prestazione più avanzato – e più insidioso – che si potesse immaginare).
Del resto, questo Accordo sembra prendere atto che alcuni dogmi del lavoro di fin de siècle sono da consegnare alla sfera dell’utopia: tra questi rientra anche l’idea di un welfare esclusivamente affidato alla risorsa pubblica. Nell’attuale contesto di scarsità di risorse e di contrazione della spesa previdenziale pubblica, al contratto collettivo viene affidato un ruolo di primo piano nella gestione della formazione – troppo a lungo trascurata dalle parti sociali -, del “welfare contrattuale” e della sperimentazione di nuove forme di solidarietà intergenerazionali, le quali, oltre a promuovere modelli di active ageing potranno riattivare alcuni circuiti virtuosi nel mercato del lavoro.
V’è tuttavia un tema classico del lavoro del ‘900 che con questo Accordo viene al contrario rilanciato: la partecipazione dei lavoratori. L’argomento è delicato, perché l’Accordo non si limita a favorire una cultura partecipativa nella forma della partecipazione alle decisioni dell’impresa, ma auspica anche l’implementazione di forme di partecipazione agli utili dell’impresa. Quest’ultima forma di partecipazione può apparire, com’è logico, infida in un periodo come quello attuale di forte crisi economica, ed è per certi aspetti estranea a un modello di relazioni di lavoro come quello italiano (negli USA invece è questa la forma di partecipazione che più si è sviluppata negli ultimi anni). Sulla partecipazione alle decisioni, però, i margini di miglioramento del sistema italiano sono amplissimi, e inducono a considerare molto seriamente la necessità di implementare forme partecipative che vadano oltre le forme “deboli” della informazione e consultazione sindacale.
A giudicare da quanto avviene nell’esperienza di altri sistemi europei di relazioni industriali, è questo, infatti, lo strumento che appare in grado di rintuzzare i rischi di degenerazione insiti in un sistema basato sul decentramento della contrattazione collettiva. Un sapiente mix di decentramento, partecipazione e produttività ha consentito alla Germania di trasformare la globalizzazione in un’opportunità e di concepire paesi come la Cina anche come un grande mercato verso il quale esportare i prodotti ad alta tecnologia (e non solo quelli) delle imprese tedesche. Da questo punto di vista, l’Accordo cerca di tenere insieme i tanti fili di un problema assai complesso, quello del governo di un’impresa nella prospettiva di aumentarne la produttività e per questa visione complessiva può dirsi certamente innovativo.
E’ certo che le misure di questo Accordo non sono in grado di risolvere con una bacchetta magica i problemi della produttività italiana. Ma è altrettanto certo che il nostro paese non può più permettersi di aspettare l’arrivo della fata della produttività, mentre il resto del mondo si mette in moto provando a fare, ciascuno per parte sua, quello che si può.
1. Si v. ad esempio Tito Boeri, Perché serve molto di più, La Repubblica, 22 novembre 2012
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