di Salvatore Aprea –
Le terre rare sono metalli indispensabili: le loro proprietà sono sfruttate dai grandi magneti delle turbine eoliche e dai cellulari, dagli schermi televisivi, dalle marmitte catalitiche, dagli hard disk dei computer e per la costruzione dei motori dei veicoli ibridi. Il mercato planetario oggi è monopolizzato dai cinesi che cominciano ad utilizzarle come leva politica, spaventando le industrie occidentali e asiatiche.
Il nome non tragga in inganno. I 17 elementi chimici che appartengono alle “terre rare” sono diffusi su tutta la crosta terreste, sono i giacimenti con una concentrazione sufficiente per lo sfruttamento ad essere piuttosto rari. La loro scarsità rende incerto il futuro della green economy e dell’elettronica di consumo, ma anche delle energie rinnovabili. Le terre rare, infatti, non sono materiali ai quali oggi si possa rinunciare facilmente: per esempio le proprietà di questi metalli sono sfruttate dai grandi magneti delle turbine eoliche e dai cellulari, l’europio serve per gli schermi televisivi, il lantanio e il cerio vengono usati nelle marmitte catalitiche, il disprosio fa funzionare gli hard disk dei computer ed è utilizzato nella costruzione dei motori dei veicoli ibridi. Fino agli anni ’50 la maggior parte delle terre rare proveniva da India, e Brasile, poi il predominio dell’export è stato del Sudafrica (teoricamente sotto embargo) fino agli anni ’80, quando per un breve periodo gli USA hanno fatto la parte del leone. Negli ultimi anni le riserve si sono concentrate soprattutto in aree abbastanza ristrette e spesso politicamente complesse. Il gallio ad esempio proviene quasi tutto dalla Cina, il cobalto dal Canada e dalla Repubblica del Congo. Le nazioni più ricche di metalli rari sono la Russia (platino, palladio), il Brasile (niobidio, tantalio), la Repubblica democratica del Congo (cobalto, tantalio) e la Cina (antimonio, fluorosparo, gallio, germanio, grafite, indio, magnesio, tungsteno). Con il nuovo millennio proprio i cinesi hanno impresso una svolta al mercato delle terre rare, facendo calare i prezzi fino a diventarne praticamente i monopolisti poiché oggi coprono il 95% della produzione mondiale.
Dalla Cina con furore
Bruce Lee, è ovvio, non c’entra nulla. Semplicemente negli ultimi tempi Pechino ha cambiato rotta in modo drastico, dietro l’obiettivo ufficiale di proteggere l’ambiente, imponendo alla sua industria delle terre rare tetti di produzione e di esportazione sempre più severi (per il 2011 i limiti sono stati fissati rispettivamente a 93.800 e 30.184 tonnellate). Inoltre, di recente le autorità cinesi hanno dato un ulteriore giro di vite, per contrastare il diffusissimo fenomeno dell’estrazione illegale: nel 2010 si calcola che siano state estratte 118.900 ton a fronte di un tetto di 89.200 e si stima che dal 2007 i limiti di produzione siano stati superati anche del 40-50%. Il materiale in eccesso è stato quasi interamente esportato, approfittando dei prezzi sempre più elevati. Secondo i dati della PricewaterhouseCoopers, l’anno scorso i prezzi di molti minerali rari sono esplosi, decuplicando i livelli del 2010 prima di calare di nuovo.
Le stringenti decisioni del gigante asiatico, hanno scosso i mercati internazionali e provocato la condanna del WTO, l’organizzazione mondiale per il commercio. Negli ultimi tre lustri, infatti, il crescente utilizzo ha fatto assumere alle terre rare un’importanza geostrategica di prim’ordine, trasformandole in una ineludibile leva politica. In mancanza di nuove scoperte questa forte richiesta di terre rare presto potrebbe causare una domanda mondiale superiore all’offerta di 40.000 tonnellate/anno per parecchi anni. Secondo il rapporto del Congresso americano pubblicato lo scorso settembre, la domanda mondiale di elementi rari è stimata in 136.000 tonnellate/anno, a fronte di una produzione globale di circa 133.600 tonnellate nel 2010. La previsione non è tranquillizzante: entro il 2015 la domanda dovrebbe raggiungere almeno le 185.000 tonnellate/anno, pari a quasi il 40% in più rispetto al 2010. Questi metalli, oltretutto, sono sfruttati anche nel settore della difesa, in particolare nella costruzione di missili guidati e di radar. Ne fanno uso diversi dispositivi dell’esercito degli Stati Uniti, tra cui le apparecchiature per la visione notturna e i missili Cruise. I cinesi, in tal modo, hanno acquisito nel tempo una posizione di forza che ha impaurito le industrie occidentali e asiatiche, come in occasione della crisi diplomatica con il Giappone del 2010 quando, per rivendicare un gruppo di isole sperdute, Pechino ha bloccato le forniture di terre rare. Dopo la sospensione per due mesi delle esportazioni cinesi verso il Giappone, vari paesi si sono attivati per cominciare a sfruttare le proprie risorse e scienziati, economisti e politici di mezzo mondo stanno valutando le possibili soluzioni. Secondo l’esperto franco-russo Alexandre Latsa i mezzi possibili sono tre: “Ridurre il loro utilizzo; diversificare le fonti di approvvigionamento (fuori dalla Cina) o riciclare questi minerali. La riduzione del consumo sembra quasi impossibile ed il riciclaggio non permetterà di far fronte alla domanda crescente di terre rare, almeno a breve e medio termine. La sola soluzione è dunque nella riapertura delle miniere abbandonate e nella ricerca di terre rare al di fuori della Cina”.
Le ricerche di altri giacimenti sono state avviate in particolare in Sud Africa, Brasile, Canada e Stati Uniti. Le aree più appetibili sembrano i depositi minerari di Mountain Pass, negli USA, dove nel 2002 la produzione è stata bloccata e che per gli esperti potrebbe tornare a produrre fino a 20.000 tonnellate/anno; il giacimento di Mount Weld, in Australia, che potrebbe produrre 22.000 tonnellate/anno; il giacimento di Lofdal, in Namibia, in fase di esplorazione da parte di una società canadese; il giacimento di Hoidas Lake, in Canada, dove si stanno effettuando prospezioni. Quanto ai giapponesi, dopo la lezione cinese, stanno realizzando joint venture in diversi paesi per esplorare alcuni giacimenti: la Sumitomo con Kazatomprom, in Kazakistan, la Toyota in Vietnam e la Mitsubishi a Pitinga, in Brasile.
Anche l’Europa, che dipende dall’import per quasi il 100% del proprio fabbisogno, ha cominciato a prendere provvedimenti per non farsi cogliere alla sprovvista dalle politiche restrittive con cui Pechino sta governando il settore delle terre rare. Bruxelles in particolare sta cercando di rafforzare i rapporti con fornitori russi, sudamericani e africani. Il progetto di accumulazione di riserve strategiche è ancora agli inizi, ma la Molycorp Simet, il maggiore raffinatore di terre rare del Vecchio continente, è già stata contattata insieme ad altri operatori del settore e punta a costituire scorte di almeno 3000 tonnellate di carbonati misti di terre rare, pari alla sua capacità produttiva annua.
Le nuove attività minerarie aumenteranno le riserve, ma non fino a soddisfare la domanda dei prossimi anni. In particolare i rischi riguardano il neodimio e il disprosio, utilizzati per produrre i magneti nei motori delle vetture elettriche e ibride e per le grandi turbine eoliche. In un documento ufficiale del dicembre scorso, il Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti ha stimato che la diffusione di vetture elettriche e centrali eoliche offshore potrebbe causare entro il 2015 una carenza di questi materiali. Il motore della Toyota Prius, ad esempio, ne usa quasi un chilo e una turbina eolica offshore può arrivare a richiederne alcune centinaia di chilogrammi. Le conseguenze sono imprevedibili: in molte applicazioni non esistono alternative immediate. I comuni magneti, inclusi quelli che attacchiamo al frigorifero, non sono abbastanza forti, a differenza dei magneti di terre rare: a parità di peso, le leghe di neodimio con ferro e boro sono quattro o cinque volte più potenti. L’efficienza di questi magneti è tale che dall’inizio degli anni ’80 i ricercatori non hanno più sviluppato alternative. Solo pochi scienziati e ingegneri al di fuori della Cina stanno ricercando altre soluzioni, ma ci vorranno anni prima che queste vedano la luce nei motori, poiché richiederanno lo sviluppo della competenza tecnica e delle infrastrutture per la produzione. George Hadjipanayis, docente di fisica e astronomia presso l’Università del Delaware, ha spiegato che gli Stati Uniti hanno “perso la competenza” dopo la chiusura delle miniere e il ricollocamento in Asia degli impianti produttivi affinché fossero vicini alle miniere attive e costassero meno in manodopera. Se nei prossimi anni la fornitura di terre rare non dovesse soddisfare la domanda, in mancanza di sostituti i costruttori di vetture ibride ed elettriche dovranno probabilmente sviluppare nuovi motori basati sul magnetismo interrotto anziché quello permanente, ha spiegato Eric Rask, ricercatore dell’Argonne National Laboratory. Patrick Taylor, direttore del Kroll Institute for Extractive Metallurgy della Colorado School of Mines ha detto: “Vogliamo sviluppare questo nuovo, grande mercato dell’energia, ma disponiamo di risorse limitate mentre la domanda continua a crescere”. Alla domanda su come la Cina abbia fatto a prevalere sul resto del mondo, Taylor ha risposto che tecnici e aziende hanno cominciato a trasferirsi in quel paese già vent’anni fa, ma allora nessuno prestò attenzione al fenomeno.
Carenza di terre rare: una minaccia per la green economy
Un recente report del Joint Research Center della Commissione europea ha esaminato il fabbisogno di metalli rari delle 6 tecnologie low carbon su cui è fondato lo Strategic Energy Plan (SET-Plan) europeo: nucleare, eolico, solare, cattura della CO2, energia da biomasse e reti elettriche. Lo studio del JRC ha evidenziato che 5 metalli (indio, gallio, tellurio, neodimio e disprosio) avranno problemi di approvvigionamento, mettendo a rischio settori tecnologici come il fotovoltaico e l’eolico. Analizzando i vari fattori che potrebbero portare al deficit di offerta, per il JRC ad esempio la crescita del fotovoltaico a film sottile (tecnologie CdTe e CIGS) porterà ad un rilevante incremento del fabbisogno di tellurio (fino a +48%), indio (fino a +32%) e gallio (circa 8%). Il JRC raccomanda, innanzitutto, di promuovere la ricerca di soluzioni alternative per l’uso o l’estrazione più efficiente e una serie di azioni per incrementare il riciclo e il recupero degli scarti di produzione di questi elementi. Secondo un report Unep del 2010 (Metal Stocks in Society), attualmente solo l’1% di questi materiali viene recuperato. Il fabbisogno di indio, adoperato per produrre i semiconduttori e le lampade a led dovrebbe raddoppiare entro i prossimi 10 anni, ma attualmente se ne ricicla meno dell’1%. Il palladio in circolazione, invece, sarebbe recuperabile tra il 50 e il 90%, ma ad oggi se ne ricicla solo il 5-10%, anche perché nel mondo solo il 10% dei cellulari gettati viene smaltito correttamente. Il riciclo, insomma, rappresenta una svolta obbligata: per il report Unep le riserve di metallo sono sempre meno nelle miniere e sempre più nei rifiuti da smaltire. Ad esempio se nel 1932 per ogni americano c’erano 73 kg di metalli da recuperare, ora ve ne sono 240 kg.
Futuro incerto
Gli ottimisti sulla disponibilità di terre rare per la crescita delle tecnologie pulite sono pochi. Chris Berry, fondatore di House Mountain Partners (società che si occupa di analisi geopolitiche specializzata nella gestione delle risorse minerarie) ipotizza un futuro “grande aggiustamento”: “Oggi le proiezioni della domanda di terre rare vengono ricalibrate. Nel contesto attuale – con l’alto debito pubblico di Stati Uniti ed Europa e segnali di rallentamento della crescita anche in Cina – è presumibile che anche la domanda di terre rare diminuirà”. Il merito è anche di compagnie come Toyota e General Motors che investono nella ricerca di alternative ai preziosi metalli da impiegare per i loro prodotti. Solo un settore, per Berry, non si curerà della sostituzione delle terre rare, per le ottime prestazioni che offrono: quello militare.
L’equilibrio geo-strategico del pianeta potrebbe subire forti oscillazioni, ma il monopolio cinese potrebbe avere vita breve. Per Latsa, Pechino rischia di affrontare diversi problemi: “Più della metà della produzione cinese viene dal sito di Bayan Obo, in Mongolia Interna, e il 35% dalla provincia del Sichuan. E’ interessante sapere che più della metà della produzione cinese è consumata dalla Cina e che, nel 2009, il 50% delle sue esportazioni sono andate al Giappone, il 19%, agli USA ed il 15% verso i Paesi industriali dell’Unione europea (principalmente Francia, Germania, Italia ed Olanda)”. Peraltro, le riserve planetarie di terre rare – stimate nel 2010 in 110 milioni di tonnellate – sono in Cina solo per il 50%: il resto è distribuito per lo più nella Comunità degli Stati Indipendenti (ovvero le repubbliche ex Sovietiche) per il 17%, negli USA (12%), in India (2,8%) e in Australia (1,9%). Inoltre, numerosi grandi giacimenti sono stati scoperti in Brasile – che recentemente ha annunciato di averne trovato notevoli riserve – e piccoli giacimenti sono stati trovati in Argentina, mentre il Giappone avrebbe trovato enormi quantità di terre rare nei fondali oceanici tra i 3.550 e i 6.000 metri, su una superficie estesa per migliaia di km2. L’interesse di Latsa, però, è rivolto soprattutto alla Russia: La stima delle sue riserve “…potrebbe essere rivista al rialzo in maniera abbastanza forte dopo le ultime scoperte nella regione di Murmansk o nella penisola di Kola. La caccia alle sostanze strategiche non si limita alle terre rare. Nelle isole Curili (rivendicate dal Giappone) è stato scoperto un giacimento di renio. Questo metallo rarissimo è utilizzato in diversi settori della chimica. Il giacimento delle Curili potrebbe produrre più di 26 tonnellate all’anno, mentre la domanda mondiale di renio raggiunge solo le 30 tonnellate all’anno. Le isole Curili sono anche ricche di altri elementi rari: germanio, indio, afnio. Ma per il momento nessuno parla di una loro prospezione perché, secondo la legge, in Russia questi giacimenti sono dichiarati strategici”. Nel 2010 la Cina ha prodotto 120.000 delle 125.000 tonnellate di terre rare di tutto il mondo, ma la Russia è ormai seconda con le sue 2.000 tonnellate, davanti a USA (1.700 t), Brasile (650 t), Malaysia (380 t) e India (75 t).
Nessuno sa quanta sostenibilità ambientale, sociale e politica ci sarà nella rivoluzione tecnologica in atto, basata su risorse rare, difficilmente accessibili e saldamente nelle mani di governi non proprio democratici e di multinazionali potenti come Stati. Ciò che appare chiaro è che la guerra per le risorse, a cominciare da quelle più rare, sembra appena cominciata e potrebbe sconvolgere l’instabile equilibrio geopolitico dei combustibili fossili con uno ancora più precario.