di Luca Bergo –
Come si esportano i capitali all’estero e come si evadono le tasse in modo legale? La facilità della procedura descritta da un industriale attraverso un paio di esempi riportati da un nostro lettore è sorprendente, quanto sapere che questa “tecnica” sembra essere molto diffusa. Eppure nessuno ha mai provveduto a impedire o ostacolare queste pratiche. Il continuo drenaggio di ricchezza dall’Italia impedisce che queste cifre possano essere reinvestite nel nostro Paese in innovazione e ricerca, stimolando quella crescita di cui oggi abbiamo un disperato bisogno. Luca Bergo attraverso questo articolo vuole provocare e stimolare una discussione in cui il contributo di qualche economista fornisca i dati necessari a smentire o suffragare le sue considerazioni.
Venerdì mattina, in occasione degli auguri di capodanno, un industriale mi ha raccontato un paio di esempi di come fanno le aziende a esportare capitali all’estero e evadere le tasse, in modo assolutamente legale. Basta costituire due o tre società, una delle quali in un paradiso fiscale. Ecco come si fa.
Mettiamo, ad esempio, una nota azienda di scarpe, vendute col marchio “Made in Italy”, ma costruite in Cina. Le compriamo in Italia a 200 € al paio, ma vengono prodotte in Cina, al costo di 20 € al paio. In teoria, l’azienda dovrebbe pagare le tasse su un utile di 180 € su ogni paio di scarpe vendute ….e invece?
Semplicissimo: per prima cosa, quest’azienda costituisce una società in un paradiso fiscale, mettiamo il Lussemburgo, dove si pagano poche o punto tasse. Poi ne costituisce un’altra in Italia, dove come sappiamo le tasse sono molto salate. A questo punto, la società lussemburghese ordina, mettiamo, una nave di scarpe in Cina, pagandole 20 € al paio, e le rivende alla società italiana, al prezzo di 199 € il paio. Le rimane un utile di 179 € esentasse, in un paradiso fiscale. La società italiana quindi, vendendole a 200 €, ha un utile di 1 solo €, sul quale, dedotte le spese, paga le tasse. Le scarpe non devono nemmeno passare in Lussemburgo: la nave cinese le scarica direttamente in Italia, è solo un giro di fatture. Il proprietario è lo stesso, i profitti vanno sempre nelle sue tasche, ma non ci paga le tasse ed è perfettamente legale. Noi paghiamo 200 € un prodotto che ne costa 20, e i profitti finiscono in Lussemburgo legalmente.
Ora, mettiamo una grande industria, con sede e stabilimento in Italia, dove lavorano migliaia di operai, che produca elettrodomestici, con un costo industriale di 500 €, che vengono venduti in Italia a 1000 € l’uno. In teoria, l’azienda dovrebbe pagare le tasse sui 500 € di utili: ma non è così, neanche in questo caso. Perché questi elettrodomestici, prodotti e venduti in Italia, vengono distribuiti e venduti da una società straniera, con sede in un paese dove si pagano poche o punto tasse. Questa società, li compra dalla fabbrica italiana a 501 €, e li rivende a noi al prezzo di 1000 €, ricavando un utile di 499 €.
Anche in questo caso, l’utile resta, legalmente, in quel paese dove non si pagano tasse. Ma qui la situazione è anche più grave, perché alla fabbrica italiana, per ogni pezzo prodotto, resta solo 1 €, troppo poco per fare nuovi investimenti e innovazione.
Il racconto del mio industriale induce a qualche facile considerazione, che mi piacerebbe fosse smentita o suffragata dai dati di qualche economista, di quelli che parlano tutti i giorni di spread, di equità fiscale e di lotta all’evasione sulla grande stampa, in televisione o magari sono diventati ministri della Repubblica:
1) secondo il mio interlocutore, questo trucchetto è estremamente diffuso: in pratica lo utilizzano tutti quelli che possono farlo;
2) in questo modo, un fiume di denaro esce dalle nostre tasche, per finire in paradisi fiscali: un gigantesco drenaggio di ricchezza che lascia l’Italia per non farvi ritorno;
3) se tutti i profitti aziendali restano all’estero, non vengono reinvestiti in innovazione e ricerca: questo vuol dire che non c’è speranza per gli stabilimenti che ancora esistono in Italia, che sono destinati all’obsolescenza e a soccombere nel medio periodo alla concorrenza straniera;
4) quando gli industriali chiedono, e quasi sempre ottengono, maggiore flessibilità e condizioni di lavoro ancora più gravose per le maestranze, non lo fanno necessariamente per riconvertire o ristrutturare la produzione, ma anche semplicemente per estrarre più ricchezza da quel che resta, prima di chiuderlo;
5) se questa è la situazione, forse diventa comprensibile il fatto curioso che nessuno parli di modelli di uscita dalla crisi, di riformare le regole economiche, o di trovare nuovi modelli di sviluppo: che gli importa?
6) se questo fosse vero, l’Italia sarebbe ben presto il primo Paese del primo mondo destinato a scivolare verso il terzo mondo: ma ben presto verrebbe seguita da molti altri, tendenzialmente da tutti;
7) non è detto che gli italiani accettino, ma non è nemmeno detto che se ne accorgano in tempo…