di Sergio Bologna –
Una riflessione di grande interesse che affronta il tema del lavoro intellettuale nel nostro Paese, partendo, non a caso, dalle biblioteche, passando attraverso l’università per giungere ad analizzare il mondo imprenditoriale italiano. Questa ampia riflessione di Sergio Bologna ha aperto l’appuntamento che si è tenuto a Roma, domenica 11 marzo su “Il lavoro culturale: la bandella della Magliana”, un incontro con le reti e i movimenti della conoscenza organizzato nell’ambito del festival “Libri Come”, 8-11 marzo, all’Auditorio-Parco della Musica. Venerdì 9 e sabato 10, alla stessa ora, si sono svolte le assemblee “0,60 a cartella” e La cassa delle letterature” , un punto sul lavoro culturale oggi, in Italia.
Dovessi raffigurarmi il paradiso me lo immaginerei come una biblioteca (H. Müller)
A Roma il moto di rivolta dei lavoratori della cultura, dello spettacolo, dei media, è partito col piede giusto. I simboli contano. E’ cominciato da una biblioteca, dalla Biblioteca Nazionale. Non importa se allora la protesta è riuscita o meno, ma aver scelto una biblioteca come punto di partenza ha avuto il potere di evocare valori universali e contraddizioni importanti della nostra epoca. Cosa viene in mente a sentir dire “biblioteca”, oltre a servizio pubblico, bene comune? Provo a elencare alcune parole-chiave.
Conservazione della memoria, ricerca, silenzio, palestra della mente.
Difficile stabilire una gerarchia, ma conservare la memoria è una funzione essenziale, un cardine della civiltà, la metterei al primo posto. La Biblioteca è il luogo dove sono custoditi, salvati, i documenti con i quali si può visitare il passato e dunque conoscere meglio il presente. Senza biblioteche non c’è storia, senza storia non c’è cultura. Sono luoghi che resistono alla cancellazione permanente insita nel nostro modo di vita.
Ricerca, paziente, ostinata, che avanza passo dopo passo – l’opposto della frettolosa ricerca via Internet.
Educazione della mente, non performance. Riflessione, non prestazione. Ultimo luogo pubblico dove trovi quel bene prezioso, sempre più raro, che è il silenzio.
In una biblioteca non c’è il vuoto degli spazi pubblici inutili, tanto cari agli architetti di certi musei o gallerie d’arte.
1. Il tema di questo dibattito è: lavoro culturale e le sue condizioni di mercato. Come deve ragionare il lavoro culturale per migliorare le sue condizioni, il suo status? O meglio, come dovrebbe ragionare? Le considerazioni che seguono intendono portare un contributo in tal senso.
C’è stato un tempo, quello nel quale si è formata e consumata la mia generazione, durante il quale la condizione del lavoro culturale si giocava sul discrimine tra cultura alta e cultura bassa, cultura di classe e cultura proletaria. Questo tempo è passato – per fortuna forse – ma nel mio modo di pensare di esso è rimasto un residuo da cui non intendo – o forse non posso – sbarazzarmi. Di che si tratta? Della convinzione che la cultura è conflitto sociale, se proprio non ci piace il termine conflitto, è pur sempre prodotto di un qualcosa che nella società si muove, cambia, si trasforma. Nel bene o nel male. Non può esserci cultura dove la storia si è fermata, dove tutto tace. Può essere esplicitato o meno questo rapporto, può esserci cultura che nasce da un piccolo tornante della storia e lo ignora, ma consapevolmente. Cultura senza interlocutori, avversari, referenti, non esiste. Cultura autoreferenziale non è cultura.
2. Ma questo tipo di cultura, che è il prodotto di una trasformazione sociale, nasce sempre dal volontariato. E’ un grosso scoglio, questo, perché è difficile affrontare la condizione economica del lavoro culturale oggi senza riflettere sul senso del nostro volontariato. Come possiamo parlare di tariffe se prima non risolviamo il problema del volontariato? Il nostro volontariato non è riconosciuto come tale, non ha la legittimazione sociale di cui godono i volontariati che si occupano d’infanzia abbandonata o di epidemie. Non rientra nella categoria.
Abbiamo fondato riviste, raccolto una cerchia di collaboratori, organizzato le riunioni di redazione, inseguito gli autori per la consegna dei pezzi, suggerito gli indici, ce le siamo scritte, le abbiamo portate in tipografia, ce le siamo distribuite, ce le siamo pagate, siamo andati in giro a presentarle, ci abbiamo rimesso i soldi che servivano per l’affitto di casa, tanti studenti le hanno prese in mano, sono venute fuori idee per la tesi, hanno cominciato a guardare la loro disciplina in altro modo…. Perché il nostro volontariato non ce lo riconosce nessuno? Perché un tale che raccoglie offerte per la lotta contro la psoriasi è riconosciuto come volontario e noi no?
“Perché quello fa una cosa che serve” – mi si risponde – “voi fate quello che vi piace”.
Non pretendo che mi si dica che il mio lavoro ha un’utilità sociale, mi accontento che mi si iscriva nella lista del volontariato. Avremo diritto a qualche agevolazione. Questo è un punto da approfondire, magari diventa una rivendicazione.
3. Rapporto di lavoro, contratto, retribuzione. E qui c’è la dannazione del lavoro intellettuale a mettere i bastoni tra le ruote. Nel lavoro intellettuale non c’è mai l’alienazione totale, quella che dava all’operaio massa il senso di estraneità assoluta verso il suo prodotto e gli apriva il cervello, lo predisponeva al conflitto, una volta superata la paura e calcolato i rischi. Il lavoro intellettuale non riesce a raggiungere il distacco completo dal suo prodotto, quell’alienazione totale che permette di capire come funziona il mondo. Nel prodotto ci mette una parte, sia pure piccola, di se stesso, pertanto gli riesce difficile odiarlo, guardarlo con occhio estraneo. Parlo del prodotto, non del mestiere. L’orgoglio di mestiere è altra cosa.
Il lavoratore intellettuale, anche se assunto a tempo indeterminato, raramente riesce a costruire un fronte di lotta collettivo, è più probabile che negozi da solo la sua posizione. Il precariato oggi ha reso la negoziazione individuale un fenomeno strutturale. Pertanto riuscire a costruire battaglie collettive è un grande compito, assai difficile. C’è da chiedersi però se partire dal prodotto, dalla prestazione, sia la strada più percorribile. Io penso che le due condizioni, quella del volontariato e quella dell’insufficiente estraneazione, sono dei lacci che legano le mani al lavoro intellettuale nel concepire il conflitto inteso come premessa di un negoziato con la controparte. Perciò proverei ad arrivarci per un’altra strada.
4. Il volontariato che produce cultura come attività extramercato è il vero lavoro di conoscenza, mentre la prestazione conto terzi è cessione di competenza. Proviamo a scindere conoscenza e competenza, un’operazione arbitraria, però proviamo a farlo per chiarire meglio questo passaggio. Ho difficoltà a immaginare un lavoro di conoscenza retribuito o meglio, retribuito per il suo valore. Perciò mi riesce difficile toglierlo dalla sfera del volontariato. Il lavoro intellettuale retribuito è cessione a titolo oneroso di competenze, non è lavoro di conoscenza, tant’è vero che dopo avere fornito servizi competenti non ci sentiamo per niente arricchiti del nostro bagaglio di conoscenze. Abbiamo arricchito il nostro savoir faire, è una cosa diversa, ci siamo meglio attrezzati per erogare lo stesso servizio con minore sforzo, così come l’operaio dopo avere ripetuto lo stesso movimento per cento volte impara a farlo in modo da strappare del tempo per una sigaretta a parità di output. Ma questa situazione che è tipica dello skill non rientra nella sfera del lavoro di conoscenza che per sua natura è un lavoro extramercato, svincolato da un prodotto specifico o anche dal “produrre”, è molto più legato all'”inventare”, all'”innovare”, a rompere gli schemi, a “liberare” e a liberarci. Conoscenza e libertà sono due termini inscindibili, che si possono esprimere anche con una sola espressione “libertà di pensiero”, qualcosa che rimanda all’infinito.
Lo skill invece è sempre circoscritto a qualcosa di finito e quasi di cogente com’è caratteristico di tutte le attività di prestazione conto terzi, ha libertà limitata, è strumentale a un rapporto di dipendenza. Inoltre, la sfera della conoscenza non è mai “specialistica” mentre la competenza deve esserlo.
5. La conoscenza quindi è innervata nella trasformazione sociale ed è per sua natura incompatibile con una mercificazione, non rientra nel classico ciclo marxiano denaro-merce-denaro, è un prodotto del volontariato. Parlare di “lavoro di conoscenza” pertanto non è del tutto corretto, il termine “lavoro” dovrebbe sempre essere associato all’idea del lavoro come merce scambiabile con denaro. Negli ultimi anni si è spesso sentito dire e scrivere: il nostro lavoro non è una merce! Chi ha detto e scritto così pensava forse di difendere la dignità del lavoro, l’intenzione era buona, io penso invece che si debba dire “il mio lavoro è merce, è quello che mi consente uno scambio monetario con cui sopravvivo, scambio che debbo cercare di migliorare a mio favore con il negoziato o con il conflitto”. Distinguendo nettamente l’attività di cessione di competenze a terzi dal volontariato proprio del lavoro di conoscenza.
Se dobbiamo parlare della condizione socio-economica del lavoro culturale oggi, dobbiamo focalizzare il discorso sulla creazione e lo scambio di competenze, il lavoro di conoscenza per ora mettiamolo da parte.
6. Creazione di competenze allora, qui entra subito in gioco il discorso sull’università. L’università fornisce competenze non conoscenza. L’ordinamento universitario, essendo sempre più specialistico e compartimentato, non contribuisce a creare conoscenza né cultura come trasformazione sociale. Quindici anni fa, quando abbiamo iniziato a sistematizzare il discorso sul lavoro autonomo, abbiamo avuto necessità di creare una “Libera Università”, recuperando il significato originario del termine universitas, comunità di persone animate dagli stessi interessi. L’innovazione di pensiero oggi deve liberarsi della macchina universitaria. Oggi è impossibile avere libertà di pensiero nel format della produzione accademica. Dall’economia alla sociologia, alla filosofia, alla letteratura, nelle scienze umane in generale, il format del prodotto accademico è concepito con lo scopo di legittimare la macchina esistente, è un meccanismo autoreferenziale.
7. Dicevamo che l’università fornisce competenze non conoscenza. Però comincio a dubitare che questa macchina sia ancora in grado di fornire competenze. Sicuramente non è in grado di fornire le competenze richieste dal mercato. Non è un problema da poco e poi: come si fa a stabilire se è inadeguata la domanda o l’offerta? Dovremmo dire che è un rapporto di forza, a comandare è la domanda. Qui entriamo nella sfera del mercato del lavoro. Gli studi universitari sono un investimento che l’individuo fa per poter entrare nel mercato del lavoro con probabilità di accedere al suo segmento meno povero. Quindi studia per poter acquisire quelle competenze che gli consentono uno scambio favorevole. In genere pensa al mercato del lavoro del paese dov’è nato, quindi inquadra le sue aspettative in un contesto socio-economico specifico. Come si configura questo contesto oggi in Italia? Non è la sede per fare un’analisi della situazione italiana del mercato del lavoro. Però due numeri, due, potrebbero aiutarci a chiarire meglio il nostro discorso. Sintetizzando al massimo diciamo che il mercato del lavoro si suddivide in due macrosegmenti: il mercato della P.A., dell’impiego pubblico o dell’impiego creato da risorse pubbliche, e il mercato dell’impresa (pubblica o privata non fa problema). Nel primo caso il capitale è dato da trasferimenti, nel secondo da profitti.
8. Il primo è controllato direttamente o indirettamente dalla politica. Per quanta autonomia un funzionario della P.A. possa conquistarsi nei confronti della politica, alla fine questa finisce per prevalere nelle scelte e nell’allocazione delle risorse. Basta pensare proprio al settore della cultura.
Questa situazione produce come effetto la caduta di valore delle competenze, sostituite da altri criteri di scelta del candidato.
Come fare per rimediare a questa situazione? In particolare il lavoro culturale, come fa a conquistare una posizione di maggior potere negoziale con la P.A. se le competenze del singolo, i suoi skill valgono poco o non valgono? (Pensiamo quante volte siamo caduti nell’illusione che presentando un bel progetto, innovativo, avremmo ottenuto un finanziamento!).
Singolarmente si ottiene ben poco, occorre per forza porsi come forza collettiva nel negoziato, occorre costituirsi come soggetto pubblico, come lobby. Ma prima ancora occorre rendere possibile il negoziato costringendo la P.A. a discutere pubblicamente e preventivamente la politica culturale che intende perseguire e la distribuzione delle risorse tra i vari progetti, quella cosa che va sotto il nome di “bilancio pubblico partecipato”. Mi sembra che qualcosa in questa direzione a Roma lo stiate facendo. Alle forze politiche con le quali possiamo dialogare dobbiamo porre questa rivendicazione come scambio politico. Un suggerimento che posso dare è quello di leggere le scelte di politica della cultura all’interno dell'”economia dell’evento” non perché questo è il modo di fare buona cultura ma perché questo è il modo in cui il sistema capitalistico oggi fa cultura, cioè come una leva per mettere in moto risorse che toccano diversi settori della vita economica, dal turismo al mondo assicurativo, senza trascurare un consistente settore artigianale-operaio. Il capitalismo ha creato una filiera e qui sta la sua forza, per contrastarlo o condizionarlo dobbiamo ripercorrere la filiera, decostruirla (rimando al nostro libro “Vita da freelance”, al capitolo sull’economia dell’evento). Per non parlare del problema della partecipazione del capitale privato alla politica della cultura, le cosiddette sponsorizzazioni. Non sono quasi mai concepite come contributo al bene pubblico ma come contributo all’immagine aziendale. Si dovrebbe prenderne di mira qualcuna che finanzia i soliti obbrobri e colpire l’immagine dell’azienda, un po’ nello stile del movimento no logo.
Costituendoci in soggetto pubblico possiamo migliorare la condizione di mercato delle nostre competenze, ne riportiamo il valore su livelli accettabili, ma per far questo occorre tanto lavoro di conoscenza, tanto volontariato. Da soli, individualmente, anche se dotati di competenze relazionali, per così dire, non riusciremmo a migliorare la nostra posizione negoziale.
9. Due numeri sul macrosegmento dell’impresa in generale. In Italia l’impresa da parecchi anni non crea posti di lavoro più di quanti ne distrugga e quei pochi che crea sono, come sappiamo, per l’80% a termine. E se crea posti di lavoro, lo fa prevalentemente in settori stagionali o in progetti a termine (il turismo e l’edilizia sono i più caratteristici di questi). Gli imprenditori dicono che in Italia non si può lavorare, eppure i numeri ci dicono il contrario. Dall’indagine Mediobanca-Unioncamere sulle imprese italiane 2009-2010.
Dalla prima tabella, Indici di sviluppo complessivi, si vede chiaramente che anche nell’ultimo quinquennio, sebbene i fatturati non siano stati insoddisfacenti, è diminuita la forza lavoro. Il fatturato certo non conta molto, sono gli utili che contano. Dalla seconda tabella, Struttura dei conti economici, dall’ultima riga – segnata con la freccia rossa – si può vedere che anche negli anni della crisi, negli anni peggiori, gli utili non si sono azzerati, anzi, e negli anni precedenti sono stati migliori. Non si può continuare a dire che in Italia un’impresa moderna non può lavorare perché i dipendenti costano troppo o che in Italia a fare impresa ci si perde. Quelli che così parlano pensino invece ad investire nelle loro aziende. L’aspetto veramente sconcertante del capitalismo italiano emerge infatti dalla tabella seguente.
L’apporto di capitale da parte degli azionisti delle imprese si è ridotto in maniera drammatica. I nostri capitalisti, tranne in alcune medie imprese, non hanno investito, non hanno reinvestito, sono stati i primi a non credere nelle loro aziende, hanno approfittato di un credito a buon mercato, hanno dirottato i profitti su altri settori (immobiliare soprattutto, prodotti finanziari) o li hanno esportati. L’altra ragione per la quale gli azionisti non hanno investito nelle loro imprese è dovuta ai meccanismi della finanziarizzazione. Chi investe come venture capital dopo tre anni se ne esce dall’impresa con un profitto e lo investe altrove. La Germania oggi ha una situazione economica buona, la disoccupazione è ai minimi perché le aziende tedesche hanno reinvestito anche negli anni della crisi. Molte, a migliaia, sono tornate dall’estero, soprattutto dai paesi dell’est, per ritrovare la qualità della forza lavoro. Questo è anche il risultato di una politica di deregulation del lavoro che dal 2002 ad oggi in Germania ha creato 6 milioni di working poor, situazione in parte tamponata da un welfare abbastanza solido. Ma in Italia non è bastata la deregulation, abbiamo gli stessi working poor, non abbiamo i sussidi per sostenerli, ma la maggior parte del padronato, con un senso civico piuttosto singolare, i suoi profitti li dirotta altrove, contribuendo in tal modo alla stagnazione che ci affligge da parecchi anni. Se ha spostato le aziende all’estero si guarda bene dal riportarle in Italia. Conclusione: le competenze nel settore controllato dalla P.A. valgono poco, nel settore controllato dalle imprese restano inutilizzate oppure vengono prodotte dal sistema universitario in maniera che non corrisponde alla domanda di mercato.
10. E’ difficile credere che il governo Monti, con la fase 2, quella delle politiche di sviluppo, riesca a cambiare questa situazione mediante le liberalizzazioni oppure mediante la riforma del mercato del lavoro, cioè riesca a convincere gli azionisti delle imprese a fare il loro dovere. Pertanto non c’è molto da sperare nella creazione di posti di lavoro da parte delle imprese. Non hanno investito finora, non lo faranno domani. Le competenze, ammesso che qui valgano di più che nel mercato controllato dalla P.A., resteranno in gran parte inutilizzate. Qui sembra ancora più difficile poter migliorare la situazione, dopo che il sindacato è diventato un’arma spuntata e spesso anzi contribuisce a peggiorare la situazione (perché, invece di irrigidirsi sull’art. 18 i sindacati confederali non si sono irrigiditi sulle norme che possono migliorare la condizione del precariato e sui sussidi di disoccupazione? D’altronde è anche singolare che non esista un movimento di massa dei precari in grado di stringere d’assedio la sede dove le parti sociali discutono la riforma del lavoro, se non ora quando?). Quando parliamo di padronato attenti però a generalizzazioni superficiali. Il capitalismo nostrano, toccati certi limiti di estrazione di plusvalore dalla forza-lavoro, si organizza sempre più in modo che l’impresa maggiore possa sfruttare altre imprese minori lungo la catena di subfornitura. A tutto questo si aggiunge un ciclo dell’economia mondiale non favorevole, che incide sulla parte più dinamica dell’impresa italiana, l’esportazione. La somma di queste cose ci porta a concludere che negli anni prossimi il mercato del lavoro italiano, nel versante delle imprese, non offrirà ai giovani maggiori o migliori prospettive di quelle che presenta oggi. Da noi ci sarebbe da aggiungere come terzo macrosegmento quello dell’economia criminale, che rappresenta una parte dell’economia sommersa. E’ inutile nascondersi dietro un dito, le varie mafie in Italia immettono liquidità nel sistema e sono il terzo datore di lavoro dopo la P.A. e l’impresa.
11. Negli Stati Uniti risulta dagli ultimi dati che il 62% dei nuovi posti di lavoro è prodotto dalle start up, cioè da microimprese nate per iniziativa di qualcuno che si è inventato un lavoro. Può darsi che la politica keynesiana del futuro non sia quella di costruire grandi infrastrutture (modello al quale sembrano affezionati ancora i nostri governanti) ma quello di fornire risorse alle start up. Ma perché questo sia praticabile occorre una drastica redistribuzione delle risorse. Negli USA la riduzione delle spese militari è il passaggio più evidente.
Non escludo che questa tendenza si manifesti anche in Italia. Già da parecchi anni è la microimpresa a creare il maggior numero di posti di lavoro da noi. Ma non si tratta propriamente di start up bensì di attività prodotte dalla scomposizione e frammentazione del ciclo produttivo e distributivo esistente, per consentire quel meccanismo di sfruttamento dell’impresa sull’impresa di cui abbiamo appena parlato, in parte definito come outsourcing. In pratica in che cosa consiste questo meccanismo? Nello scaricare rischi e costi sul fornitore, nel non pagarlo o pagarlo con ritardi drammatici – mentre lui deve pagare i dipendenti a fine mese, le spese vive, gli interessi alla banca che gli sconta le fatture e che alla fine non gli concede nemmeno il fido. Ci sono più suicidi di piccoli imprenditori falliti che di operai licenziati.
Quando parliamo di start up pensiamo istintivamente alle imprese nate negli anni 80 e 90 con la rivoluzione informatica, pensiamo a Silicon Valley, a un lavoro intellettuale di alto livello, al quale non possiamo disconoscere il titolo di lavoro di conoscenza. Sembra però che l’orientamento delle start up americane di oggi vada meno nella direzione del business e più nella direzione dell’Existenzgründung, come chiamavano i tedeschi il lavoro autonomo qualche decina di anni fa, tradotto in parole povere, sono un modo per sopravvivere più che un modo per far quattrini.
12. Torniamo per un momento al problema del lavoro di conoscenza, senza dimenticare però che l’oggetto della nostra riflessione non è una nuova teoria della conoscenza ma un semplice contributo per rispondere alla domanda: come deve (dovrebbe) ragionare il lavoro culturale per migliorare la sua condizione socio-economica oggi? Abbiamo detto che il lavoro di conoscenza è un lavoro extramercato, avente come orizzonte l’infinito, tutto volontario. Ci riferivamo al lavoro di conoscenza che produce valori immateriali, archetipi, prototipi mentali, che produce idee sulle quali si costruisce una mentalità, una capacità di discernimento, un modo di vivere e di concepire le cose, una filosofia di vita, un’etica e dunque una politica. Lavoro di conoscenza è quello che produce valori trasmissibili, riproducibili, idee che possono servire ad altri. Nel lavoro di conoscenza c’è sempre una tensione, una spinta sociale, in esso è sempre presente il moto del dono, quindi è intrinsecamente votato al volontariato.
Ma saremmo ingenui e fuori dal mondo se volessimo isolare totalmente il lavoro di conoscenza dalla natura dell’homo faber. Ricordando Silicon Valley avevamo prima introdotto il discorso sulle start up. Si è verificato allora il fenomeno di una rivoluzione tecnologica prodotta da tanti lavori di conoscenza individuali, nati spontaneamente, che, una volta tradotti in merce, siano essi prodotti materiali o immateriali oppure servizi, hanno creato modi di vita diversi, in parte hanno permesso nuovi spazi di comunicazione e di libertà, in parte hanno creato le premesse per nuove condizioni di schiavitù. Quello che voglio dire è che questo lavoro di conoscenza ha cambiato il mondo nel bene e nel male e ha dato al lavoro cognitivo una legittimazione ed un peso molto rilevanti. Sperare che una stagione simile si ripeta e si ripeta in Italia non mi sembra il caso, però un lavoro di conoscenza in grado di produrre progetti sostenibili e attività che consentano quella sopravvivenza che non sarà più assicurata da una domanda di lavoro o distorta – nel caso della P.A. – o insufficiente, va considerato un obiettivo da perseguire tanto importante quanto l’organizzazione di un conflitto.
13. Qualcuno potrebbe obbiettare a questo punto che c’è una palese contraddizione tra la definizione del lavoro di conoscenza volontario che si misura con l’infinito e il lavoro di conoscenza che produce merci. Certo che c’è contraddizione ma è la stessa insita nel lavoro in quanto tale, nel concetto stesso di lavoro, di cui Marx dice che è doppelseitig, ambivalente, portatore di libertà e del suo contrario, dipendenza. In ogni scelta che noi facciamo è insito un risultato e il suo rovescio. Quella che nasce come impresa sociale può diventare strumento di mera accumulazione, la storia del movimento cooperativo lo dimostra. I rivoluzionari possono diventare i peggiori dittatori. O accettiamo che questa ambiguità, questa ambivalenza, sia intrinseca ad ogni lavoro di conoscenza e ad ogni lavoro culturale, oppure ci trasformiamo in adoratori di una Città del Sole che non verrà mai. Ma questo “realismo” non ci impedisce di affermare che il lavoro di conoscenza al quale noi ci sentiamo chiamati, per nostra vocazione, per nostra scelta, è il lavoro che produce valori universali, trasformazione sociale e sensazione di libertà in chi lo esercita. Dunque volontariato.
14. Se questa fosse la sua unica qualità, non varrebbe la pena parlarne in un contesto dove si trattano problemi in ultima istanza “sindacali”. Non avrebbe senso parlarne qui. Invece credo che abbia senso questo discorso perché il lavoro di conoscenza al quale ci sentiamo chiamati per una spinta etico-intellettuale è quello che oggi meglio consente alla persone di dotarsi delle competenze necessarie a sopravvivere come knowledge worker in una situazione di mercato nella quale, se dovessimo calibrare la qualità e la tipologia delle competenze sulla domanda effettiva delle imprese o della P.A., oggi in Italia, finiremmo solo per ingrossare le fila dei disoccupati o di quei poveretti che se ne stanno chiusi in casa al computer a spedire curricula a tutto spiano. Quello che appare lavoro di conoscenza come missione di volontari è in realtà, tra le altre cose, molto spesso la palestra migliore per dotarsi di competenze “relazionali”, oggi altrettanto utili quanto le competenze “tecniche”. I missionari del dono, considerati degli acchiappanuvole, riescono spesso a dotarsi di competenze spendibili meglio di tante altre perché non sono frutto di un’istruzione standardizzata e codificata ma di un’autoformazione.
15. Concludo con una riflessione che mi è suggerita dall’esperienza che stiamo facendo nella vita associativa di ACTA (Associazione Consulenti Terziario Avanzato). La crisi di mercato delle forme di lavoro dipendente, che ormai è un dato di fatto – ma non è in crisi l’aspirazione degli individui ad un lavoro retribuito regolarmente – ci ha portato a indagare con sempre maggiore attenzione le opportunità del lavoro indipendente o autonomo che dir si voglia. La sua condizione oggettiva, la sua situazione socio-economica, non è migliorata né nel nostro Paese né altrove. Ci chiediamo perché, malgrado questo, il lavoro indipendente continui a crescere soprattutto nelle professioni intellettuali e creative. Può darsi che sia l’effetto di una situazione di necessità: trovando sempre meno chi offre lavoro dipendente a condizioni decenti, si accetta un lavoro autonomo anche a condizioni difficili o indecenti. Potrebbe essere letto così lo sviluppo delle start up negli USA.
Noi però siamo orientati a vedere le cose da un’altra angolatura. Parlando con le persone e soprattutto dialogando con tanti freelance all’estero – il network internazionale è una risorsa indispensabile non solo ad un’associazione ma a qualsiasi knowledge worker – abbiamo notato un forte cambiamento nella mentalità dei lavoratori autonomi delle professioni intellettuali, che sembrano voler uscire dall’isolamento tipico di chi lavora in proprio per cercare sempre di più un modo di lavorare in comune, in spazi condivisi. Il fenomeno dei co-working si sta diffondendo a macchia d’olio nel mondo, sono partiti come una nicchia del business immobiliare, ma sempre più gli utenti chiedono a queste strutture la possibilità a) di creare competenze mediante scambio e integrazione di professionalità diverse, b) di creare community, socialità. Ciò risulta nettamente dall’indagine che è stata fatta in occasione del secondo convegno mondiale del co-working che si è svolto a Berlino nel novembre 2011. Siamo convinti che in futuro questi spazi potranno essere considerati come un servizio sociale. Farlo entrare nella zucca dei nostri Amministratori di enti locali non sarebbe una cattiva idea. Altrettanto importante sarebbe far entrare nella zucca dei nostri governanti l’idea di una politica keynesiana diversa da quella fondata su grandi opere infrastrutturali e orientata invece al sostegno delle start up (superando però l’approccio dei vecchi “incubatori”, che sono nati con l’illusione di creare tante piccole Silicon Valley). In attesa che la nostra azione sia capace di ottenere dei risultati su questo piano, direttamente politico, dobbiamo provvedere noi stessi a realizzare questo cambiamento con lo spirito di un nuovo mutualismo. La Freelancers Union negli Stati Uniti ci sta riuscendo, in Europa siamo ancora indietro ma qualche passo avanti si sta facendo, c’è una spinta “sindacale” e associativa di tipo nuovo.
16. In Italia la battaglia più difficile è quella contro le vecchie associazioni, chiuse nel difendere il recinto della singola professione e succubi del modello associativo degli Ordini professionali. Pensano in questo modo di difendere il valore della competenza e non si accorgono di essere semplicemente portatrici dell’ideologia del professionalismo. Un’ideologia, dice un illustre sociologo, “tipica delle persone che hanno bisogno, per vivere, di avere un’alta considerazione di se stesse”. Certe volte noi di ACTA abbiamo difficoltà a far capire che questo è il modello associativo contro il quale ci battiamo. Contro di esso noi proponiamo un modello di rappresentanza “trasversale”, in grado di battersi per gli interessi comuni di tutte le professioni, di tutto il lavoro professionale. Molti pensano invece che la nostra principale preoccupazione sia quella di distinguerci dal sindacato operaio, dai sindacati confederali. Noi invece vogliamo smantellare un’ideologia che imprigiona la middle class e la mette alla mercé dell’attuale sistema capitalistico e nel far questo ci ispiriamo a culture, come quella del mutualismo, proprie del movimento operaio. I sindacati confederali (oltre a crearci dei problemi sul fronte dei contributi previdenziali) non hanno ancora capito il senso della nostra battaglia sul fronte dei modelli associativi del ceto professionale. Per quanto riguarda poi la Sinistra istituzionale, la vicenda della Torino-Lione e dei No Tav dimostra ancora una volta il suo legame indissolubile con gli interessi dei gruppi che vivono di commesse pubbliche per la costruzione di grandi infrastrutture e quindi la sua subalternità a un modello di sviluppo che ha già rovinato la Spagna. Sulla riforma del mercato del lavoro ACTA ha avanzato una sua proposta, ma avrà qualcosa da dire anche sulla fase 2 del governo Monti. Se il destino del nostro Paese si gioca sulla knowledge economy e sulla cultura, la nostra piccola esperienza, la vostra, dovranno contare sempre di più.