di Anna Simone e Federica Giardini –
E’ dai tempi del referendum sulla cosiddetta “privatizzazione” dell’acqua che il tema dei beni comuni è entrato nel dibattito politico. Se ne è parlato e se ne parla in prospettive diverse. Si è arrivati a farne il perno di un paradigma politico totalmente alternativo. Pubblichiamo un primo contributo che affronta il tema nella prospettiva del rapporto fra diritto e politica.
Beni comuni è espressione che ha già un suo tempo di maturazione interna ed esterna: dal torrido agosto del 2008, mese di lancio della Legge 133 che prevedeva in un colpo solo la privatizzazione dei servizi idrici e dell’università, attraverso l’istituzione di fondazioni; passando per la Commissione Rodotà sui beni pubblici e la stesura dei quesiti per il referendum; dalla marea montante di movimenti civici e studenteschi fino all’esito del referendum del 2011; per arrivare alla campagna planetaria di #occupy e all’istituzione di un assessorato ai beni comuni a Napoli.
Sono fili che si intrecciano, ma non per questo sono una cosa sola. I nodi e i paradossi attorno al tema vanno esplicitati. Con l’espressione beni comuni si disegna un nuovo paradigma della politica, da cui si ricolloca e si risignifica la dimensione della politica dei movimenti, anche nei suoi rapporti con il diritto.
Il primo nodo riguarda la necessità di non sovrapporre i beni comuni con la logica della difesa dei beni pubblici e/o collettivi già previsti dalla Costituzione. Diversamente da un “bene pubblico” – iscritto nella Costituzione – i beni comuni non esistono se non attraverso quel complesso politico di abusi, dismissioni, riappropriazioni e restituzioni. Non si tratta quindi di un diritto fondamentale da ripristinare, bensì di una nuova forma della politica basata su un’azione generativa e rigenerativa di ciò che è individuato come posta in gioco di un conflitto, attraverso una serie di comportamenti e azioni che sono dell’ordine della sottrazione e insieme della produzione. Sottrazione di un luogo, di una risorsa, di un diritto, mal gestito o svuotato o dismesso, per avocarlo a sé e, al contempo, generazione di una nuova consistenza, materiale e concreta, di quella risorsa, di quel diritto. La riappropriazione è un atto di riqualificazione, non di difesa. Proprio perché un bene comune non è una risorsa preesistente al complesso di abusi, riappropriazioni, riqualificazioni, di mobilitazione e partecipazione, anziché di beni comuni (Commons), è più appropriato parlare di un fare comune (commoning).
D’altra parte, non si tratta neppure di evocare astrattamente una forma dell’autonomia del politico, ma di praticarla attraverso la relazione, la riappropriazione, la restituzione. Il comune c’è se lo incarniamo riprendendoci e rifacendo i beni comuni, oppure è solo parola o, in ultima ratio, evocazione di un principio giuridico astratto che, per quanto possa riferirsi alla fonte primaria del diritto, ovvero la Costituzione, si attesta sul principio di una statualità un po’ antica diventando un escamotage certo interessante, ma sicuramente più reattivo che sorgivo, ovvero un diritto ripensato a partire dal conflitto, da una prassi che trasforma la consuetudine in un nuovo diritto sociale agito, prima ancora che elargito dall’alto della giurisprudenza.
In secondo luogo la riappropriazione non consiste in un avvicendamento nell’esercizio del potere sovrano, non si tratta semplicemente di cambiare i soggetti che lo gestiscono. Alla base dell’occupazione non c’è un soggetto definito dall’appartenenza ad un popolo, né tantomeno a una comunità, o ancor peggio a uno status identitario, legato al proprio segmento produttivo di appartenenza. Piuttosto all’inizio c’è un’azione che compone le forze per restituirci e per restituire all’intera società ciò che è nostro. Non c’è un programma preliminare attorno a cui si costruisce un’identità omogenea. Piuttosto un’urgenza condivisa, un bisogno che spinge ad agire, che crea forme di affinità passionale. Contro le retoriche del nimby, che vorrebbero questa politica localistica, comunitaria, regressiva rispetto al piano statuale e alle sue vocazioni modernizzanti e globali, la politica dei beni comuni mostra una costante e intensa capacità federativa, che consideriamo una forma di politica delle singolarità in relazione.
Proprio per questo individuiamo un altro nodo da sciogliere: fare comune non è un momento di difesa di diritti prima acquisiti e poi dismessi, o una serie di microlotte che non parlano tra loro perché separate dal segmento produttivo di appartenenza (garantiti/non garantiti, materiali/ immateriali, etc.). Piuttosto una contingenza del politico che si presenta come un’opportunità per reinventare istituzioni o gestioni del comune – pensiamo alle municipalizzate – a partecipazione collettiva, ma soprattutto all’autogoverno delle occupazioni.
Infine, proprio perché questo fare comune interviene sulla crisi – dal welfare alla gestione del territorio e del patrimonio culturale, dai diritti di libertà ai diritti sociali svuotati di senso – trova la sua prima forma nella partecipazione, e non nella rappresentanza: non è una rivendicazione rivolta a un’istituzione che sola ha il potere di concedere, di negare, di regolare per legge. Nell’agire che riqualifica si esprime una capacità autoregolativa: non istanza di sovranità di un popolo, quindi, ma piuttosto ritorno alle radici dell’auctoritas, nel suo significato più vitale di “aumento”, accrescimento delle proprie capacità di generare e rigenerare le relazioni che costituiscono il vivere comune. Su questo punto registriamo una certa analogia con le attività di cura, quando rifiutano di pensarsi secondo condotte femminili di stampo ottocentesco e, soprattutto, quando resistono a farsi collocare nel dilemma tra dinamiche di mercato e servizi garantiti dalle politiche pubbliche. Fare comune non è né solo costituente – il primo stadio verso un nuovo ordine costituito statico e immobile – né solo un costituito da tutelare, bensì spazio che si riapre conflittualmente nel rideterminare le condizioni di vita e il loro senso, l’alternativa alla miseria del presente.