Noi che ci siamo un po’ tutti illusi
di Rossella Aprea –
Un bilancio difficile e doloroso per chi a 50 anni ha vissuto di musica e ha creduto nelle infinite possibilità di un Paese che negli anni Ottanta e Novanta sembrava destinato ad un radioso futuro. Dal posto fisso al precariato in un lento e inesorabile declino.
E’ il 21 febbraio e nella casella di posta elettronica di Lib21 arriva questo messaggio “Salve, ho letto con un certo interesse alcuni vostri articoli e in particolare le inchieste sui precari… Io sono un precario della musica di 50 anni, non so se vi può interessare la mia esperienza che è in parte simile a quella di molti miei coetanei oltre che, naturalmente, dei miei colleghi più giovani.
Siamo in generale un settore che ha anticipato molte tendenze che ora dilagano ovunque e da una parte, si potrebbe dire, ci abbiamo fatto il callo da tempo.
Dall’altra però siamo anche vittime di un pensiero – l’onda lunga degli anni ’80 e ’90 che giunge fino alla “monotonia” citata da Monti – che se in origine ci ha illusi ora ci porta dritti alla disperazione generata da una precarietà che da materiale si trasforma velocemente in esistenziale….”
Qualche settimana dopo su Skype, a quelle parole scritte per email riusciamo ad associare una voce, anche se non ancora un volto per problemi tecnici di collegamento, ma questo basta per conoscersi e capire, sentire un altro pezzo di mondo che annaspa in questo Paese.
Mi chiamo M.P., ho appena compiuto 50 anni, sono nato e vivo a Milano, sono un musicista non specializzato, nel senso che ho lavorato in molti ambiti e con molte posizioni contrattuali diverse. Ho attraversato negli anni il mondo del lavoro e ho visto di tutto. Per questo motivo in qualche modo mi fa piacere raccontare cose, che forse del settore specifico della musica non sono tanto conosciute, un po’ perché vige il classico pregiudizio che questo non è un lavoro, ma un divertimento e dall’altro perché chi lo considera un lavoro ci guarda quasi con invidia, perché il nostro è il lavoro bello, divertente, gratificante, non faticoso. Purtroppo, le cose non vanno esattamente così, per lo meno non per chi lavora nella fascia media. Mi sono diplomato al conservatorio ma mi sono sempre mosso in ambiti molto diversi. Professionalmente sono tuttora un musicista jazz, ma ho lavorato per guadagnarmi da vivere molto spesso anche nella musica classica e quindi ho attraversato e vissuto da precario tutto il mondo delle fondazioni, ex enti lirici. Inoltre, sono anche un insegnante e come tale mi occupo di un settore più pop, cioè che dal jazz si sposta verso la popular music. Attualmente insegno presso un’associazione a Milano che gestisce dei corsi serali di musica per adulti e poi sono docente a contratto in un Conservatorio. Non so se l’anno prossimo riavrò il contratto perché c’è una situazione molto difficile che coinvolge tanti musicisti di jazz italiani. I più fortunati hanno un cattedra a tempo indeterminato, come vincitori del concorso al conservatorio che è stato bandito ormai vent’anni fa, c’è poi una fascia intermedia che occupa cattedre a tempo determinato e infine una fascia molto ampia, nella quale mi trovo anch’io, che ha dei contratti. I conservatori sono strutturati non più come in passato con pochi corsi che formavano il percorso dell’allievo, a volte sin da bambino. Oggi i conservatori principalmente si occupano di formazione universitaria e offrono una marea di corsi. Così oltre alle materie principali ci sono una serie di materie secondarie, alcune delle quali sono affidate al personale del conservatorio, altre a specialisti assunti tramite graduatoria con un contratto co.co.co a ore, questo è il mio caso. Inoltre, posso essere considerato anche una sorta di libero professionista, perché svolgo anche un’attività mia personale nel jazz, in musiche di ricerca legate all’improvvisazione. Infine, ormai saltuariamente, anche se per tanti anni è stata la mia principale attività, mi capita di lavorare in qualche produzione di opere liriche o in ambito classico
Molte attività, ma tutte saltuarie e precarie, mi pare di capire.
Data la tua lunga esperienza, allora quali cose metteresti in evidenza della condizione di precario?
La mia situazione è paradossale, perché quando avevo 25/26 anni, appena uscito dal conservatorio, non avendo molto ben chiaro cosa fare e avendo fatto il servizio civile come assistente di ragazzi handicappati, ho trovato subito lavoro come educatore con un contratto a tempo indeterminato. Era il 1986. Si trattava proprio di un’altra epoca, mi era bastato fare a Milano 5 domande in 5 scuole che mi erano comode, essendo vicine a casa e dopo pochi giorni mi avevano già chiamato per una supplenza annuale come insegnante di musica. Dopo poco tempo ho lasciato questo incarico, per andare ad insegnare ai ragazzi disabili mentali di Milano all’ANFFAS. Non avevo alcuna formazione specifica, potevo contare solo sull’esperienza del servizio civile, ma mi è bastata quella per essere assunto a tempo indeterminato.
Quindi possiamo dire che tu hai fatto il percorso inverso, cioè dalla condizione di lavoratore a tempo indeterminato a precario?
Praticamente sì, rifacendomi all’infelicissima battuta del nostro attuale premier sulla monotonia del posto fisso. Va considerato che in quell’epoca quel lavoro a tempo indeterminato l’ho lasciato io, perché il mio interesse era la musica. Ho preso questa decisione perché comunque in quell’epoca sembrava ci fossero infinite possibilità di avere una vita varia, oltre a poter svolgere un bel lavoro per il quale avevamo studiato. Ci siamo un po’ tutti illusi. Per questa illusione ho abbandonato il posto a tempo indeterminato definitivamente nel 1991 per dedicarmi interamente all’attività di musicista e di insegnante. Invece, da lì è cominciato un lento e inesorabile declino. C’è sempre stato meno lavoro e in condizioni contrattuali sempre peggiori. Nel settore artistico adesso ci hanno tolto anche l’indennità di disoccupazione, di cui ho goduto per cinque-sei anni (30% della retribuzione delle giornate lavorative fatte durante l’anno precedente, ma solo avendo lavorato almeno 78 giorni). Questa indennità in Italia costituisce veramente una piccola integrazione dello stipendio per chi svolge un lavoro intermittente. In Francia i lavoratori dello spettacolo alcuni anni fa hanno protestato con grande determinazione e compattezza per una riforma del lavoro, che avrebbe ridotto in qualche modo le loro tutele, ma che, però, tuttora vista dall’Italia è un paradiso.
In Francia, ad esempio, hai un assegno mensile che copre tutti i periodi di disoccupazione, perché viene riconosciuto il carattere intermittente di questo lavoro e questo vale per tutti, cioè dall’ultima delle comparse fino al più importante degli attori. Questa considerazione di cui godono porta probabilmente anche ad una diversa situazione contrattuale di coloro che sono stabili, mentre in Italia c’è una forbice ampia tra i precari e i dipendenti stabili che costituiscono una minoranza, e sostanzialmente sono i dipendenti degli enti lirici, delle fondazioni lirico-sinfoniche, oltre a qualche orchestra sparsa per l’Italia. La maggior parte dei musicisti nei vari settori lavora saltuariamente e non ha alcun tipo di tutela, non a caso molti miei colleghi si sono trasferiti in Francia.
Hai detto che in Francia i lavoratori dello spettacolo hanno protestato, bloccando festival ed altre manifestazioni musicali con estrema decisione, ma come mai noi italiani non protestiamo?
Per il forte individualismo. Io ho fatto parte di un piccolissimo sindacato, nato per difendere i musicisti intermittenti, SIAM. Questo sindacato si è federato con la CGIL, ma in Italia la categoria dei musicisti si cristallizza nella contrapposizione del “suoni bene, suoni male”… cioè se non lavori, vuol dire che suoni male, e così tende ad eliminare il problema.
Questo collegamento con le grandi organizzazioni sindacali, a tuo avviso, è stato positivo?
Non direi, la CGIL ha un suo sindacato di categoria – SLC, Lavoratori della Comunicazione – ed è arrivata in ritardo ad occuparsi del problema della precarietà. Oltre a questo, va tenuto presente che tutti i sindacati si trovano ad affrontare la netta contrapposizione tra gli interessi dei dipendenti stabili e quella degli altri, cioè dei precari. Queste due categorie sono state e sono ancora nemiche.
Purtroppo, sia all’interno del sindacato, sia nell’ambito della scuola pubblica, per tutte le mie piccole battaglie ho sempre pagato delle conseguenze personali, anche pesanti, come l’esclusione dall’insegnamento mediante un’arbitraria retrocessione in graduatoria.
Che tipo di possibilità ci sarebbe, secondo te, per uscire da questa situazione e da che cosa si dovrebbe cominciare se ci fosse la volontà reale di fare qualcosa?
No, non c’è nessuna speranza. In realtà rifacendomi a quello che ha detto John Berger, un grande scrittore che io amo molto, io mi definisco un pessimista speranzoso. Tutto quello che vediamo non porta minimamente in direzione della speranza. La soluzione, se qualcuno mai la vorrà adottare, è il modello francese, che se è non il più avanzato, è sicuramente tra i più avanzati in Europa per quello che ne so e che funziona con un investimento dello Stato di poco superiore all’1% del PIL. In Italia siamo drammaticamente molto al di sotto di questa cifra. Tra l’altro la quasi totalità di questo finanziamento, il FUS, cioè il Fondo Unico per lo Spettacolo, in Italia è destinato alle fondazioni lirico-sinfoniche, di cui fruisce solo una piccola parte della popolazione … Se una riforma deve essere fatta, deve muoversi in questa direzione, cioè differenziare la destinazione dei fondi. È vero che noi abbiamo una tradizione lirica, ma esiste anche tutto il resto e non tutti i fondi possono andare alla musica sinfonica. Esistono tanti bravi musicisti, che s’industriano, abbandonati a se stessi.
Io a tutti quelli che sono bravi, dico “Andatevene!”. Io a 50 anni non posso, ci ho provato e tuttora ci provo, ma per me è difficile. Quelli che se ne vanno, fanno bene. Il pessimismo è molto forte. Non c’è speranza, se non ci sarà un cambiamento culturale, che non so nemmeno da dove possa partire, forse dalla rete. Lì nella rete ho colto segnali sparsi di vitalità, ho incontrato gente molto valida, ma disperatamente isolata.
La nostra precarietà da problema materiale presto diventa un problema esistenziale. Io come tutti sono protetto dal welfare familiare, vivo come un pensionato al minimo e ho la fortuna di non dover pagare l’affitto, altrimenti…
Ma se ci si mette insieme…?
Una delle mie speranze, che andrebbe già nel senso di un’imprenditoria collettiva, è quella di riuscire ad aggregare un numero sufficiente di persone e riuscire a gestire uno spazio, dove proporre un diverso rapporto tra il pubblico e gli artisti, tra gli allievi e gli artisti, perché molte volte chi produce un’arte non immediatamente fruibile, di ricerca, di sperimentazione ha bisogno anche di formare il suo pubblico. A Milano, però, i costi di uno spazio sufficientemente grande sono esorbitanti, e se non hai un capitale di partenza, non puoi fare niente. Quasi tutti gli edifici dismessi, poi, sono stati acquistati dalle case di moda, che fanno il prezzo e condizionano il mercato immobiliare.
Quindi, mi stai dicendo che se anche qualcuno volesse industriarsi, non potrebbe riuscire senza disporre di determinate condizioni in partenza, ad esempio un cospicuo capitale?
L’imprenditoria la può fare solo chi è imprenditore. Io ci ho provato rivolgendomi ad una finanziaria etica, ma è noto a tutti che i prestiti non te li danno, se non hai il posto fisso.
Tutto è condizionato e dominato dal mercato. Stanno chiudendo le sedi estere della RAI, ad esempio, eppure ho letto che la Rai ha speso una marea di soldi per ingaggiare Bobo Vieri per un reality show, una cifra che si aggira sugli 800.000 euro.
Noi e tanti musicisti come me con 800.000 euro ci facciamo …80 dischi, quattro festival di musica, capisci? Come fai a conservare la speranza in queste condizioni. Vedi che vengono buttati milioni di euro, mentre io vado a suonare gratis una cosa che ho provato per anni. I miei massimi cachet li ho presi solo in Francia.
Ma tutte queste persone con capacità che vengono mortificate, non riescono a reagire, vedendo queste disparità di trattamento e spreco di danaro? Perché non c’è una ribellione, non certo violenta, ma perché non c’è una qualche forma di protesta e si accettano condizioni sempre più mortificanti?
Oggi ciò che regge la situazione, è la rete delle famiglie, domani non sarà più così.
In realtà, a Milano non percepisci questa situazione di malessere economico. Io sono un precario della cultura, ma la risposta è molto semplice. Chi è il più grosso imprenditore culturale del Paese? Berlusconi. Alle sue dipendenze dirette o indirette ci sarà il 20% degli italiani, compresi quelli che sono suoi oppositori.
Io ammiro le persone che anche tardivamente se ne sono andate. Ti rendi conto che tra televisioni, case editrici, cinema, case di distribuzione, più tutto l’indotto politico creato, ci sono milioni di persone che lavorano per lui..
Se quello è il modello che per 20 anni è andato avanti, che ha devastato la Rai, noi che possiamo fare?
Io guardo altrove, io guardo all’estero. Cerco di allacciare contatti con l’estero.
Ma noi viviamo in questo Paese, purtroppo o per fortuna?
Quello che si può fare è aggregare, continuare a discutere. Io sono interessato a fare questo, altrimenti non vi avrei contattato, ma c’è una sensazione di grande solitudine. Nella rete, certo, io ho conosciuto anche gente notevole, ecco questa è una piccola speranza.
Altra idea può essere la politica o l’etica del dono. A cui da una parte siamo costretti, per esempio noi musicisti. Questo significa lavorare gratis. Lavoro non salariato, per esempio quello degli stage, ma non è detto che tutti riescano a farlo. Essere manager di se stessi significa lavorare gratis, ma almeno per creare una ricchezza culturale. Questa idea in un certo senso ti può alleviare e lasciare viva una flebile speranza.”
Così ad arricchirci di speranza rimane solo la cultura e chi ha dedicato la sua vita a un sogno, che oggi appare solo un’avvilente illusione. Eppure, nelle pieghe di parole lucidamente amare quel sogno è più vivo che mai ed è l’unica vera speranza che abbiamo, per quanto sia stata minata, assottigliata e resa flebile.