di Sergio Bologna –
La discussione, le modalità, gli esiti del confronto sul mercato del lavoro hanno portato in superficie il peggio della cultura politica italiana ed è a questa cultura, non altro, che va ricondotto lo stato miserevole in cui si trovano oggi milioni di persone tra i 20 e i 40 anni, se hanno la sfortuna di vivere del loro lavoro.
E’ finito il tempo in cui tutta la crisi del paese si poteva addossare alle responsabilità della Lega e del Cavaliere. E’ finito il Grande Alibi con il quale certi partiti e grandi organi di stampa hanno vissuto, o vegetato, coprendo le loro responsabilità storiche con le immagini marionettistiche o truci di Bossi e Berlusconi. Adesso stanno lì, mezzi nudi, e la loro pochezza è sempre più visibile. Cercano di fare un po’ lo stesso giochetto con il governo Monti, ci provano, ma è più difficile, lo hanno voluto loro, lo ha confezionato il Presidente. Come si può sconfessare una cultura, propria di quella generazione di ex comunisti, che ha sempre visto il nemico a sinistra e considerato alla stregua dell’eversione le espressioni di autonomia di pensiero che si fanno rappresentanza?
La discussione, le modalità, gli esiti del confronto sul mercato del lavoro hanno portato in superficie il peggio della cultura politica italiana ed è a questa cultura, non altro, che va ricondotto lo stato miserevole in cui si trovano oggi milioni di persone tra i 20 e i 40 anni, se hanno la sfortuna di vivere del loro lavoro.
Era il luglio 1993 quando sindacati e Confindustria firmarono l’accordo che avrebbe negli anni successivi dato il via libera alla flessibilità della forza lavoro e al contenimento dei salari. Un anno prima il patrimonio pubblico nell’industria e nelle banche era stato messo all’asta, non al miglior offerente ma al più raccomandato. Doveva essere, quell’accordo, l’inizio di un processo di consolidamento dell’impresa italiana, di maggiore capitalizzazione, avremmo dovuto avere imprese più robuste e con maggiori risorse da investire in tecnologia e risorse umane. Abbiamo avuto imprese più piccole e “ditte individuali” che qualcuno si ostina a chiamare “imprese”. Le aziende con meno di 15 dipendenti sono diventate una maggioranza schiacciante, è cominciata nei fatti l’abrogazione dell’art. 18.
Il Paese è arrivato alla scadenza della crisi 2001/2002 con un apparato produttivo già svuotato da delocalizzazioni, indebolito dalla concorrenza dei Paesi a basso costo, dall’allargamento dell’Unione Europea e da una generazione di imprenditori restìa a investire in Italia. Eppure il nostro capitalismo poteva contare su lavori flessibili, forza lavoro scolarizzata e salari tenuti bassi non solo dall’abolizione della scala mobile ma da sindacati che definire “ragionevoli” è un eufemismo. Anche la conflittualità era vicina allo zero nel settore privato. Cosa gli impediva di rispettare il patto del luglio 1993? Quali migliori condizioni per rafforzarsi e investire in Italia? Ma non era finita, anzi, il peggio doveva venire. Lungo tutto il primo decennio del nuovo Millennio una buona parte del capitale italiano si è sottratto alla responsabilità di reinvestire i profitti (unico ruolo sociale che gli è riconosciuto). Padroni che per primi non hanno creduto nelle loro imprese, gente che ha succhiato risorse a precari, interinali, stagisti, ma non le ha rimesse nell’azienda, le ha immobilizzate nel cemento o le ha regalate alla finanza internazionale. Ora, che questa gente abbia la faccia tosta di dire che se in Italia non s’investe la colpa è dell’art. 18 dimostra come l’arroganza del potere, prima e dopo Berlusconi, non abbia limiti. La posizione di Confindustria sull’art. 18 copre il peggio del capitale industrial-finanziario italiano. Copre i grandi delocalizzatori, quelli che hanno smesso di fare gli industriali e vivono di concessioni autostradali, i devastatori del territorio, quelli che s’ingrassano sul barile di petrolio a 100 dollari, i vampiri degli appalti pubblici. Copre chi fa impresa truffando il fisco, violando le norme sul lavoro e la sicurezza, le leggi a protezione dell’ambiente, chi sfrutta i fornitori e li porta alla disperazione e al suicidio. Sono questi che dicono di non poter assumere giovani perché c’è l’art. 18. L’imprenditoria migliore, quella che in questi due decenni ha continuato a investire, a tentare di innovare, quella che tratta i dipendenti da esseri umani, che paga i fornitori, anzi li aiuta a crescere, quella che paga le tasse sui profitti, quella che lavora di cervello e di astuzia e non di lobbysmo, quella imprenditoria – e per fortuna ce n’è ancora – non viene a piangere sull’art. 18 ma mette l’accento su tutte le cose impresentabili del sistema Italia, dalle vessazioni della burocrazia, al funzionamento della giustizia, dalle clientele all’università dei baroni, dai trasporti merce solo su camion alle banche che prestano soldi a palazzinari falliti e li negano a giovani che hanno una buona idea. Perché questa imprenditoria non ha alzato la voce? Perché non ha delegittimato i vertici confindustriali, scompaginando le carte della trattativa sulla riforma del lavoro? Perché non ha urlato che l’art. 18 non è un problema? Forse perché l’Italia è il Paese delle virtù private e delle viltà pubbliche.
Avrebbe dovuto parlare il Partito Democratico, ma avrebbe dovuto dire il vero sul comportamento del grande capitale italiano degli ultimi vent’anni. Meglio tacere, meglio nascondersi dietro la CGIL. Avrebbe dovuto, prendendo le parti dell’imprenditoria migliore, formulare un’idea di sviluppo della nostra economia. Ma non ce l’ha, capisce solo di grandi infrastrutture, di grandi opere, ci sono dietro gli interessi delle grandi cooperative di costruzione che poi sanno chi ringraziare. Meglio tacere e nascondersi dietro la CGIL.
Milioni di persone, tra i 20 e i 40 anni, si trovano oggi in una situazione di precarietà, d’incertezza, d’impossibilità a progettare il futuro pur facendo parte della forza lavoro attiva. In questo c’è anche una diretta, seppur parziale, responsabilità di CGIL, CISL e UIL. Da quando la parola “precario” è entrata nel loro lessico hanno mai fatto qualcosa di sostanziale per cambiare le cose? E quando hanno preso in considerazione il problema, hanno prospettato forse soluzioni innovative? Hanno sempre riportato tutto dentro il quadro, lo schema, i parametri del lavoro dipendente, perseguendo su questa strada anche quando tecnicamente non poteva funzionare. L’importante era imporre una tipologia di status che garantisse la loro titolarità contrattuale. La prova ce l’abbiamo sotto gli occhi: la soluzione che la riforma del lavoro prospetta per eliminare le cosiddette “finte partite Iva” è una soluzione tecnicamente inapplicabile, come ha spiegato una presa di posizione dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, è una soluzione che oltretutto mette a rischio il posto di lavoro di queste persone. Ma viene ostinatamente perseguita dai sindacati e difesa in Parlamento dal PD. Si trattasse solo di questo, riguarderebbe al massimo il 10% delle Partite Iva esistenti. Ma si è voluto fare di più e peggio. Non sapendo come eliminare il 90% delle Partite Iva restanti, hanno pensato bene di dire: “Rendiamo più gravosi i loro oneri contributivi alla Gestione Separata INPS – che ha già buoni 8 miliardi di attivo – così pigliamo due piccioni con una fava: ne eliminiamo una buona parte che non ce la farà più a lavorare e con quelli che restano facciamo cassa per coprire i costi degli esodi, ci togliamo dai piedi un po’ di autonomi inaffidabili politicamente e salviamo la classe operaia che è il baluardo della democrazia”. Volendo, si potrebbe obbiettare che in tutti i Paesi la componente operaia è ben presente e certe volte maggioritaria – vedi Lega Nord – nei movimenti razzisti e populisti, i rednecks americani sono tutti proletari bianchi. Ma evitiamo queste sottigliezze, andiamo al centro della questione: l’art. 18.
Nel 1990 l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori tutelava la grande maggioranza del lavoro dipendente nel privato. Oggi, 22 anni dopo, tutela una minoranza del lavoro dipendente e non riguarda l’esercito di almeno 4 milioni di persone tra i 20 e i 40 anni perlopiù, impantanati nei contratti a termine, nel precariato insomma. In questo lasso di tempo l’art. 18 è stato abolito nei fatti da una politica industriale e da una politica del lavoro che ha visto promotori ex comunisti ed ex democristiani (leggi Treu), consenzienti i sindacati, preoccupati non di salvaguardare il lavoro del futuro ma la loro posizione istituzionale, consociativa. E allora, cari amici del PD, cari amici di CGIL, CISL e UIL, se per un ventennio non avete saputo impedire che uscisse sempre più gente dal perimetro dell’art. 18, se per un ventennio avete tollerato la diffusione del precariato e di tutte quelle forme non tutelate dall’art. 18, non è pura ipocrisia oggi irrigidirsi sull’art. 18, non è di una miopia sconfortante riportare tutto dentro lo schema del lavoro dipendente di stampo fordista? Non era questa l’occasione per prendere atto che il lavoro è cambiato, per fare il primo passo verso una flexsecurity? Non era giunto il momento di inventarsi qualcosa per consentire la sostenibilità del precariato oltre la sua abolizione con improbabili “stabilizzazioni”? Un precariato che diventa sempre più “intrinseco al settore economico di attività”. Che cosa vuol dire? Che aumentano nell’economia e nell’occupazione le attività “temporanee”, con la diffusione dell’entertainment, dei media, della cosiddetta economia dell’evento, la fieristica, la convegnistica, i festival, attività che aprono e chiudono, dove il lavoro sarà sempre “a termine”, dove 1 su 100 è dipendente, dove per forza devi avere la Partita Iva o fare l’occasionale.
C’è un aspetto che riguarda il lavoro dipendente, un aspetto su cui di solito si tace. Il bla bla bla sul lavoro precario ha finito per gettare un cono d’ombra su un tema ancora più scottante, forse. Quanto guadagna oggi chi lavora da dipendente? Se è fisso in media non guadagna tanto da mantenere una famiglia, siamo sui 1.200 euro al mese. Se è precario nella maggioranza dei casi non guadagna tanto da mantenersi da solo, siamo sui 500, 800 euro al mese per un lavoro qualificato, che richiede una laurea e che ti tiene in ufficio otto, nove, anche dieci ore al giorno. Si parla di stabilizzazione, si parla di contratto unico, ma perché nessuno parla dei working poor? Si parla di disoccupati, ma perché nessuno parla degli occupati che stanno certe volte peggio dei cassaintegrati? Perché chi lavora per far rispettare i suoi diritti deve sempre ricorrere alla magistratura? Perché tutto viene riportato nell’ambito di ragionamenti giuridici e si evita accuratamente di fare dei ragionamenti economici? Ci dovranno pur essere un qualche giorno soluzioni negoziali diverse da quelle che hanno caratterizzato il lavoro fordista, altrimenti, se accettiamo che non è possibile difendere con l’arma del negoziato, della trattativa sindacale, una forza lavoro dispersa e frammentata, dobbiamo per forza ricorrere a degli argini legislativi per fermare il degrado delle sue condizioni ed uno di questi è il salario minimo garantito. Ma ai sindacati non piace perché sottrae loro potere contrattuale. E allora si crea un mito attorno al contratto di lavoro a tempo indeterminato. Quelli che stanno peggio, gli extracomunitari soci e dipendenti delle cooperative di lavoro, giovani delle cooperative sociali, sono tutti assunti a tempo indeterminato, peccato che le cooperative nascono e muoiono, e il nuovo caporalato che le ha messe in piedi se ne scappa con i contributi, con l’ultimo mese di paga, con la liquidazione. Ma a chi venite a raccontare che il contratto a tempo indeterminato è sinonimo di garanzia del posto di lavoro? Ai gonzi oppure a chi non ha idea di come sia combinato il lavoro oggi.
Le professioni, meglio sarebbe dire il lavoro intellettuale svolto in forma indipendente – con Partita Iva, con una microimpresa dove il titolare è tutto, con studi associati – sono un universo distinto tra coloro che hanno un Ordine e coloro che ne sono privi, tra coloro che sono obbligati a versare i contributi alla Gestione Separata INPS e coloro che usufruiscono di una cassa previdenziale privata (si dovrebbe fare una riflessione su come vengono gestite queste casse e di come certe volte hanno buttato al vento i soldi di chi le ha rimpinguate per anni). Ci sono una ventina di Ordini professionali ma più di duecentocinquanta, censite dal CNEL, Associazioni professionali non ordinistiche. Chiedete a un giovane medico, a un giovane avvocato, a un giovane architetto a cosa serve il suo Ordine, come lo protegge sul mercato, ti guarderà come per dire: “mi stai pigliando in giro?” Gli Ordini sono nati per tutelare il cliente. La stragrande maggioranza delle Associazioni non ordinistiche, malgrado questo, aspira ad avere un Ordine, un riconoscimento pubblico. E’ una questione di status. Il mercato, se non appartieni a certe professioni antiche, se ne infischia dei tuoi blasoni e poco per volta anche delle tue competenze. Ma loro insistono, vogliono essere una professione riconosciuta, forse per sentirsi più su nella scala sociale, forse per avere una cassa privata da gestire, forse per essere ammessi ai “tavoli” delle cosiddette parti sociali. E su queste richieste PD e CGIL ci sentono. Tutto quello che riporta ad un tradizionale ordine delle cose, tutto quello che riproduce il quadro del lavoro del Novecento, tutto quello che riporta al passato, va bene. Osar guardare al futuro sembra una bestemmia. C’è qualche Associazione professionale, rara avis, che del riconoscimento dello Stato non sa che farsene, se ne infischia di codici etici e di tariffe minime, sa che il mercato è spietato, guarda al sodo e si ribella ad un aumento dei contributi sociali, cerca di spiegare che versare il 33% del reddito lordo all’INPS, per avere prestazioni miserabili o per non averne (si pensi alle malattie domiciliari per esempio), significa per molti dover rinunciare a lavorare. Cercano di spiegare tante cose che non funzionano o sono incongruenti nell’attuale sistema di welfare – ma le loro parole non sono gradite, forse perché ragionano con la propria testa e mantengono ferma la loro autonomia di rappresentanza. Ed è questo che non viene accettato, pare incredibile, ma è solo questo.
Un accenno soltanto agli ammortizzatori sociali. Né per gli autonomi né per i precari è previsto un ammortizzatore sociale in più, un qualcosa che possa essere interpretato come uno spiraglio verso la flexsecurity. Esce intatta dalla riforma la Cassa Integrazione, le cui richieste sono schizzate a 100 milioni di ore in poche settimane. Non la tocca nessuno perché è una forma di finanziamento all’impresa, non per altro. Si potrebbe almeno condizionarne l’erogazione ad un impegno dell’azienda a non delocalizzare. Invece diamo soldi a chi ha già la valigie pronte per andare in Brasile, in Russia, in Tunisia. In Germania si è fatto di tutto per rendere flessibile la forza lavoro e portare le retribuzioni a livelli ancora peggiori dei nostri, ma almeno si è detto alle aziende, Standort Deutschland e moltissime sono tornate indietro dai paesi a basso costo del lavoro dove s’erano rifugiate. E’ anche questa una politica industriale, minima ma lo è. Lo scontro sull’art. 18 non è una politica per lo sviluppo, è una scena di simmetriche ipocrisie.